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La guerra degli intellettuali

Ogni tanto si torna a parlare della “questione” israelo-palestinese. Come se il termine questione potesse includere al suo interno una serie di significanti difficilmente riassumibili. In effetti chi capisce davvero quello che succede lì giù?
Le cronache riportano a casa soltanto cifre, tante quanti sono i corpi morti ammazzati portati a casa dai rispettivi contendenti di un pezzo di Terra, di storia, di orgoglio, di principio, di supremazia, di rivincita. Non si torna indietro, non si fa la pace. Si combatte fino allo sfinimento. Bambini rubati alla vita, ragazzini che non l’hanno mai conosciuta imbracciano armi e danno una mano all’offensiva…l’offensiva! Un ragazzino dovrebbe conoscere solo la spensieratezza. Niente di più.
Ma se la cultura di due popoli come quello arabo e quello ebreo portano a concepire l’esistenza come una lotta perpetua facciano pure. Terrificante invece è la lotta che si consuma al di fuori di questi territori: una battaglia intellettuale tra filo israeliani e filo palestinesi.
Come si può prendere posizione e difendere un popolo piuttosto che un altro? Come si può entrare in questi schemi quasi infantili?: “Ha iniziato prima lui”, “no, lui ha attaccato per prima”, “lui mi ha tolto questo”, “lui invece quello”.
Il conflitto che si consuma tra ebrei e arabi è così pieno di sangue che mettersi dalla parte degli uni piuttosto che degli altri significherebbe essere complici di un ideale inesistente. Ormai non si capisce nemmeno più perché si combatte. Non è (solo) per il terrorismo di Hamas che non si conosce tregua, ma è tutta una conseguenza degli eventi, un cane che si morde la coda.
In questa “questione” non c’è un buono e non c’è un cattivo. Ma nel mezzo ci sono tanti, troppi innocenti che pagano le conseguenze di essere nati in quei posti. Per rispetto loro facciano un favore certi intellettuali (o presunti tali): la smettano di portare alte bandiere che non gli appartengono.

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