Il contrasto al mutamento climatico è una sfida che deve vedere in prima linea tanto l’Occidente quanto i Paesi emergenti. La posta in gioco è alta: il futuro del pianeta.
A crederlo è Odin Knudsen, presidente e ceo di Real Options International con un passato da managing director di J.P. Morgan Chase e deputy vice president della Banca Mondiale.
In una conversazione con Formiche.net, l’esperto di soluzioni ambientali e finanza green, in Italia come keynote speaker in una serie di convegni, spiega perché nuovi e drastici limiti all’inquinamento non sono da considerare un cappio, ma una straordinaria opportunità. E come costruirla.
Quale deve essere la responsabilità di Europa, Usa e Cina nel ridurre quantitativamente le emissioni?
Tutti i Paesi del mondo hanno la responsabilità di ridurre le emissioni. Nel mondo adesso ci sono circa 40 Paesi che stanno fissando carbon prices internamente e in molti di questi Paesi i prezzi sono davvero bassi e dovrebbero essere alzati.
A Parigi, nel 2015, la conferenza delle Nazioni Unite del climate change, si pensa si riuscirà a trovare un accordo su questo tema. La mia opinione è che un accordo si raggiungerà, ma che sarà senza significato. E’ necessario un nuovo approccio.
In cosa consiste?
Ad Usa ed Unione europea spetta un ruolo guida, ma ci dev’essere un impegno globale in tal senso. Per farlo c’è bisogno di stabilire internazionalmente un meccanismo equo per calcolare le emissioni. Sia quelle prodotte sinora prendendo come punto di partenza il trattato Onu di Rio de Janeiro del 1992, sia quelle calcolate in proiezione futura fino a una data stabilita. Per ragioni storiche i Paesi emergenti potrebbero avere maggiori margini di flessibilità. Ma è importante stabilire il principio che tutti debbano pagare per quanto inquinano. Si dice comunemente che alcuni Paesi emergenti non ne sono in grado se presi complessivamente, ma anche in lì vivono un sacco di persone ricche che possono farlo. Io dire che chi guadagna dai 70mila dollari in su, per fare un esempio, dovrebbe avere la responsabilità di contribuire economicamente alla salvaguardia dell’ambiente. Riassumendo: unendo emissioni storiche, capacità di pagare e il rispetto degli accordi di Copenaghen (tetto del 2% per il riscaldamento globale) dovremmo giungere a risultati apprezzabili in tempi brevi.
Come giudica il carbon market europeo? E poi, il target fissato per la riduzione di emissioni in Europa è sufficiente?
L’Unione europea ha detto di voler ridurre le emissioni del 20 percento fino al 2020 rispetto ai livelli del 1990. Probabilmente rispetterà l’obiettivo fissato, ma principalmente per la recessione economica e la scarsa crescita, la bassa domanda di elettricità, la bassa produzione industriale e l’importazione di emissioni industriali attraverso il trading.
Quali sono i maggiori ostacoli al contrasto al climate change?
Il protocollo di Kyoto firmato nel 1997 è l’ultimo accordo significativo di livello internazionale sul tema delle emissioni, perché è difficile farli e rispettarli. E il motivo è semplice: l’atmosfera è comune, la crescita economica dipende dall’energia e molta energia continuerà ad essere per lungo tempo basata su combustibili fossili. Quindi per i governi si pone un problema: ridurre l’inquinamento ma rinunciando a cosa? Crescita? Occupazione? Questi negoziati sono difficili, specialmente se il raggiungimento degli obiettivi è fissato su base volontaria.
Il secondo problema è che non c’è un meccanismo sanzionatorio: nessun obbligo, nessuna punizione per chi non rispetta gli impegni già assunti.
Quale soluzione dunque per costringere i Paesi a muoversi?
Le conseguenze del climate change avranno un impatto sulle economie di Usa ed Europa. Non sappiamo ancora quantificarlo, ma è sicuro che lo avranno. Credo che ci sia bisogno di una posizione di leadership di Usa ed Europa per imporre delle misure prima che accada qualcosa di catastrofico. Tra i primi passi ci potrebbe essere la definizione di regole federali negli Usa, perché ogni Stato non può gestire da solo la cosa, sarebbe un caos per il business. Ma anche un grande impegno del mondo scientifico.
Crede che la discussione sulle emissioni e il climate change possa rientrare nel Trattato Transatlantico tra Usa e Ue?
Assolutamente sì. Sono convinto che prima o poi ci sarà un accordo tra Usa ed Europa, anche se non in questo momento, perché il Congresso non ha delegato il presidente. Allora la domanda da porsi sarà: come costringere gli altri Paesi e in particolar modo la Cina e l?India a seguire delle regole condivise. Pechino sta già iniziando a ridurre le sue emissioni a causa dell’alto inquinamento. In ogni previsione è chiaro che non avere carbon tax equivale ad avere un vantaggio competitivo sul piano commerciale e produttivo.
Come può la carbon tax, che ora limita l’attività industriale, essere un’opportunità?
Ogni volta che c’è stata un cambiamento in senso restrittivo, la gente ha gridato al disastro. Per esempio con l’introduzione delle cinture di sicurezza, tutti dicevano che nessuno avrebbe più comprato automobili. Come sappiamo non è andata così, ma anzi si è creato un mercato di gente che produce cinture di sicurezza e si è salvata la vita a molte persone. In questo caso si creeranno opportunità legate a innovazione ed efficienza di macchinari e altro che può consentire di ridurre le emissioni.
Politici e industriali devono parlare per mettere a punto strategie industriali considivise. Prenda il caso della California, leader mondiale nel controllo delle emissioni, con una legge molto stringente. E’ passata anche perché chi opera nella Silicon Valley, gli stessi che producono innovazione, sanno bene che tipo di opportunità può essere. L’inquinamento va tassato per finanziare innovazione, ricerca e tutto ciò che può creare sviluppo green. Non è detto infatti che ci debbano essere delle restrizioni e basta. Se un’azienda rischia di chiudere e vuole acquistare crediti per inquinare può farlo. Ma dovrebbe avere poi l’obbligo di reinvestire con delle tasse più alte in ricerca e innovazione green. Sarebbe un altro mondo. Deve passare il principio che bisogna pagare per l’inquinamento e per il danno che si crea per il futuro.
Il 19 giugno Hera ha annunciato il lancio del primo green bond in Italia di 500 milioni di euro. Cosa pensa di questo strumento?
Credo che i green bond siano il futuro, perché c’è una forte domanda nei loro riguardi. Anche il loro principio è interessante. Però non bisogna trascurare due aspetti ancora poco chiari. Sono davvero green? E se sì quanto lo sono? Dipende da quello che si definisce “green”.
Come certificare la componente green dei progetti ambientali nei confronti del sistema finanziario internazionale?
Questo è un punto cruciale. C’è forte interesse sul prodotto, ma permangono i problemi che ho elencato prima e ciò frena alcuni investitori. Per ovviare a questo c’è bisogno di un ente terzo che stabilisca criteri condivisi e l’impronta green dei bond che vengono collocati sul mercato.
Cosa deve fare l’Epa, l’agenzia statunitense per la protezione ambientale, dopo che il Congresso ha respinto il Cap and Trade, che fissa un limite ad alcune emissioni?
Ci sono forti interessi economici, legati ovviamente soprattutto agli idrocarburi. In particolare i repubblicani non amano queste cose e remano contro il lavoro dell’Epa al Congresso. Per questo è importante far passare il messaggio che green non vuol dire contro il business.