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Perché la crisi economica italiana è anche politica

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Ci siamo molto meravigliati, almeno all’inizio, delle dichiarazioni del Ministro Delrio, il fedelissimo renziano che lo stesso Matteo Renzi voleva al Dicastero dell’Economia al posto di Padoan, ritenuto troppo “tecnico”.

Delrio aveva parlato di un consolidamento del debito pubblico e dell’emissione, sulla base di un parziale accordo tra i maggiori Paesi UE, di Euro union bond, che il Segretario alla Presidenza del Consiglio definisce “la mutualizzazione del debito europeo”, che Padoan ha subito bocciato.

Impossibili da richiedere alla Germania, che non ha mai voluto gli Eurobonds veri e propri, ma che segnalano con evidenza la crisi finanziaria italiana e, soprattutto, la paura del Governo Renzi di non farcela.

Ormai siamo a oltre 2100 miliardi e quindi al 135% del PIL, con 82 miliardi di interessi sui titoli emessi da pagare, il 5% del PIL, e con un Fiscal Compact, operativo dal 2015, che ci svenerà ulteriormente.

Aggiungiamoci poi il debito degli Enti Locali, ai quali la Cassa Depositi e Prestiti ha anticipato, alla fine di Marzo, 1,8 miliardi, sui 3,2 già anticipati, per estinguere le partite sospese.

Il Fiscal Compact, lo ricordiamo, è l’obbligo al pareggio di bilancio, l’obbligo poi di non superare lo 0,5% del PIL come deficit strutturale, l’obbligo per l’Italia di ridurre di un ventesimo ogni anno la parte eccedente il 60% del debito pubblico, infine il coordinamento obbligatorio dei piani di emissione del debito con il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea.

Tutte cose, è facile vederlo, assolutamente impossibili da raggiungere per l’Italia nei tempi previsti, e comunque tali da destabilizzare socialmente, politicamente e anche industrialmente tutto il Paese.

Nessun Governo italiano, né di destra né di sinistra, potrà gestire la sollevazione sociale che farà seguito ad una applicazione letterale del “rigore” europeo, e non si esclude di arrivare al sang dans la rue, per dirla con Zola.

Nel 2013 ci sono stati 149 suicidi, il doppio dell’anno precedente, la metà di questi poveri Cristi era composta di imprenditori, il 40% di disoccupati, e il restante di lavoratori dipendenti. Un suicida per la crisi economica ogni due giorni e mezzo, una epidemia sociale che, con ogni probabilità, tenderà a aumentare.

Occorre il rigore, certamente, per eliminare gli sprechi e le regalìe elettoralistiche e clientelari che hanno caratterizzato sia la Prima che la “Seconda” Repubblica, ma dove si trova il Rasoio di Occam che ci faccia distinguere con certezza la spesa inutile da quella produttiva?

Alcuni analisti americani ritengono che un tasso di inflazione del 5% possa stimolare l’economia senza ucciderla, e trasferire quanto occorre delle ricchezza cos’ generata dai creditori ai debitori, un effetto classico di tutte le inflazioni.

Occorrerebbe anche, nel “caso italiano”, una rilettura attentissima delle poste di bilancio nella voce “spese”, spesso troppo generiche, per separare, evangelicamente, “il grano dal loglio”.

Lo stesso, sia ben chiaro, dovrebbe essere fatto dalle Regioni, le vere generatrici di spesa, oggi.

Tra il 1990 e il 2012 la spesa degli Enti Locali è crescita del 118% per quanto riguarda gli stipendi e del 213% per l’acquisto di beni e servizi.

Allora: eliminare subito le Regioni a Statuto Speciale, tanto il patto tra la mafia e gli USA dopo l’”operazione Husky” che portò all’invasione della Sicilia e alla caduta del regime fascista non è più in vigore, né i Servizi francesi sostengono più i terroristi “tirolesi” per mettere in difficoltà l’Italia e portare davanti all’ONU il caso della Val d’Aosta, che Parigi non ha mai digerito come italiana. Tutte storie passate.

Le Regioni a statuto ordinario dovrebbero avere un tetto di bilancio (e di trasferimenti dal Centro) fisso e molto minore rispetto all’attuale.

Azzerare il debito dello Stato a Regioni e Province che è oggi di 325 miliardi di Euro, fissare ad un buon -10% il trasferimento dal Centro alle Periferie. E bisognerebbe ripensare la funzione stessa delle Regioni, che sono inutili se rafforziamo il vero nucleo delle autonomie locali, che è il Comune.

Ma ritorniamo al primo dei nostri argomenti: se va proprio bene, la crescita reale sarà la metà di quella prevista dal Governo Renzi, uno 0,4 rispetto all’ipotetico e molto ottimistico 0,8%.

Il che rende necessaria una manovra correttiva da almeno 25 miliardi in autunno, la stagione in cui Verlaine ascoltava “i lunghi singhiozzi dei violini”.

Ai 25 miliardi bisogna aggiungere altri 17 miliardi, come effetto automatico della deflazione sul debito pubblico. Gli obblighi del Fiscal Compact ci indicano, per il 2019, il 121% di rapporto debito/PIL.

Per raggiungere questo obiettivo, dovremmo avere un avanzo primario almeno del 4,6%, che è il triplo di quello attuale e il doppio di quello che si verificava negli anni della crescita.

Oppure, dovremmo toglierci dai piedi, in un colpo solo, circa 210 miliardi di debito pubblico.

Se allora non è possibile consolidare il debito, il che, bloccando la quota di titoli detenuta all’estero (il 27,8 %, per gli ultimi dati disponibili) creerebbe un fortissimo credit crunch per le banche, e quindi una impennata della crisi produttiva.

Anche l’ipotesi del Fondo Monetario non ci porta ad onorare la nostra firma sulla carta del “Fiscal Compact”, l’idea del FMI è quella di riscadenzare il debito mantenendo invariati i tassi attuali, mentre gli Eurobond sono bloccati dalla Germania, che non li vuole nemmeno dipinti.

L’ipotesi, lo abbiamo già detto qui, è quella non di vendicchiare pezzi di patrimonio pubblico a prezzi di realizzo per i privati, ma di costruire una Società per Azioni con tutto il patrimonio immobiliare dello Stato ( oltre 900 miliardi) che vende quote e le remunera con interessi bassi ma accettabili.

Chi compra titoli di Stato dovrebbe essere indotto, se non obbligato, a comprare una quota x del suo investimento in Titoli con azioni della Società Immobiliare dello Stato (e delle Regioni, sia ben chiaro, obbligate a conferire i loro immobili al Fondo, altrimenti niente trasferimenti).

Se non faremo così, ci vorranno 20 anni a recuperare i quasi 10 punti di PIL persi dal 2008 in poi.

I disoccupati sono arrivati oggi alla triste cifra di 3 milioni e 222 mila, il doppio di quelli verificati nel 2007. Se la deflazione non si ferma, tutti i dati macroeconomici sono destinati a peggiorare. E la deflazione è ben più difficile da debellare dell’inflazione, che si può controllare molto più facilmente. Le imprese chiuse non riaprono più. Era l’insegnamento di Federico Caffè, il maestro di Mario Draghi. O azioni forti e decise contro il declino, anche a costo di litigare con il resto dell’UE, oppure l’Italia morirà, nemmeno tanto lentamente, come quando le rotte oceaniche allargarono i mercati della Gran Bretagna e delle Fiandre e le nostre Repubbliche Marinare non poterono che morire lentamente.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa

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