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Renzi e la retorica globalizzata

Con l’intervento di oggi del premier Matteo Renzi è iniziata ufficialmente la nuova legislatura del Parlamento Europeo. E, come si sa, è iniziato contestualmente anche il semestre di presidenza italiana. Il momento storico è particolarmente rilevante, potendo trasformarsi in un’occasione favorevole per la ripresa di credibilità del nostro Paese, dopo anni di rapporti difficili con gli altri partner.

Oltretutto, un presidente del Consiglio che ha vinto le elezioni e ha un’indubbia forza nel PSE è un dato di partenza veramente favorevole e sfruttabile a pieno. Perciò era giusta tanta attesa per il solenne debutto.

L’intervento di Renzi si è rivelato in perfetta continuità con la linea politica e retorica che il politico toscano ha tenuto sempre a casa nostra: un gioco abile di affermazioni generalissime e di slogan efficacissimi, enucleati con figure retoriche apparentemente molto concrete anche se assai nebulose. Anche per questo, Renzi ha preferito l’oralità alla scrittura, depositando agli atti il testo ufficiale che è stato preparato. Un particolare, quest’ultimo, per nulla trascurabile.

Anche i temi del suo discorso sono stati quelli di sempre, mescolati con una giusta dose di veltronismo metafisico: futuro, cambiamento generazionale, rinnovamento istituzionale, e così via. Mancava soltanto l’I care obamiano e c’era tutto il repertorio culturale del buonismo internazionale. Con tale strategia Renzi si afferma, comunque, quale leader di una nuova sinistra che sembra abbandonare lo schema immobilista e passatista del vecchio socialismo per incarnare la freschezza e la vitalità del nuovo corso progressista.

L’Italia non ha bisogno di una burocrazia continentale che si aggiunga alla propria, non può accettare di essere derubricata a “espressione geografica”, ha chiarito Renzi, ma vuole partecipare attivamente alla costruzione dell’identità europea, un riferimento comune che è andato perduto a causa della piega barocca dell’apparato para politico di Bruxelles e Strasburgo.

Belle parole, ben dette, per altro, con cui è difficile non essere d’accordo. Eppure, a guardar bene le cose, esse si volatilizzano nel nulla appena sono enunciate, si disperdono nell’indeterminazione non appena sono pensate, sfavillano quando sono ascoltate, somigliando repentinamente ai fuochi fatui del Faust di Goethe che si oscurano disgraziatamente nella notte già buia.

Renzi, altro che storie, non ha affrontato per nulla i veri problemi che hanno trasformato questa Europa in un incidente di percorso che limita e ostruisce la strada verso la vera Europa che abbiamo sognato. Il come si possa sburocratizzare e democratizzare un governo del Continente, che nasce costoso e senza democrazia, non è, infatti, questione di battute, di citazioni dantesche o di lemmi inglesi tratti dalla new economy.

La sfida richiede di ripensare l’Europa prima di riaffermare l’identità europea. Ed essa non esiste senza che i diversi “noi” comunitari che la compongono non acquisiscano un peso e una sovranità sufficiente. Il passaggio a un’Europa compiuta implica il superamento di questa sovrastruttura inutilmente faraonica e la configurazione snella e ordinata di un organismo che rappresenti direttamente le molteplici identità popolari che occupano lo spazio geopolitico dell’Unione. Ciascun Paese, d’altronde, è talmente se stesso ed europeo che non esiste altra identità comune che non sia la somma delle comunità nazionali che vi afferiscono. Altro che generazione Erasmus e Telemaco. In Europa va tutto rinegoziato e ridiscusso, ovviamente per rimanervi dentro non per andarsene via.

Nel concreto, piuttosto che affrontare le questioni cosmiche universali, Renzi dovrebbe sfruttare i prossimi prosaici sei mesi per occuparsi principalmente, per non dire esclusivamente, di noi italiani e dei nostri diritti, un popolo di cittadini europei depresso e umiliato che è stato in questi anni saccheggiato e defraudato dei propri risparmi da un corpo politico internazionale che ha eseguito su di noi e contro di noi vessazioni economiche e morali di ogni tipo e per conto terzi, mediante imperativi categorici, giudizi sommari e ingerenze epistolari, totalmente antidemocratiche.

Altro che favolette da fattucchieri! Ripartiamo dall’Europa vera, dall’Europa che noi siamo, da quella che contribuimmo a creare con De Gasperi e i Trattati di Roma, non enunciando un orgoglio puerile da ragazzotti arrivati, ma assicurando una decisa volontà di essere il Paese che, ancora adesso, rappresenta al massimo l’essenza del Vecchio Mondo mediterraneo e della permanente identità dell’Occidente, quale che sia la nostra situazione economica contingente.

Più che lavorare a un futuro che non c’è, insomma, sarebbe meglio che Renzi, messi da parte i gareggi di prestigio e la spocchia del vincitore, rassicurasse tutti noi che certe cose che sono accadute in passato, certe risatine ridicole di discutibili capi di Stato stranieri contro le nostre autorità politiche, certe operazioni da congiurati del Congresso di Vienna, siano impedite per sempre. O giochiamo tutti alla pari, oppure noi la baracca non la manteniamo più. Punto.

Un Europa democratica deve costruirsi movendo dalla democrazia italiana, e non viceversa. Una democrazia italiana, sia consentito ammetterlo, non protetta solo da un elegante e vivace discorso in cui niente di grave e niente di audace sia stato fatto rimbombare nei timpani distratti degli eurodeputati. Forse è una questione di stile o forse solo un problema di opportunità politica, ma certo un rumoroso pugno sul tavolo sarebbe stato molto più efficace di tante chiacchiere al vento. Perché a un’Europa che chiede tutto e offre ben poco in termini di sicurezza, garanzie sociali e rispetto della nostra civiltà millenaria, si deve far sentire come minimo il fragore della nostra dignità e l’urlo della nostra sofferenza.


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