E’ ufficiale: la politica industriale in Italia (forse) non è più una parolaccia. L’ha pronunciata (pardon, scritta) sulla prima pagina del confindustriale Sole 24 Ore un manager, intellettuale e politico tutt’altro che dirigista, ovvero Carlo Calenda, un passato in Ferrari, in Confindustria e all’Interporto Campano: Calenda è stato eletto alle ultime elezioni politiche in Scelta Civica dopo l’esperienza da direttore della fondazione montezemoliana Italia Futura, ora viceministro dello Sviluppo economico.
Sì, Calenda parla esattamente di un “piano industriale”, che è tutt’altro che sovietico, comunque. Tanto che fra le priorità piazza anche il “superamento dell’articolo 18”. Ma a che cosa serve questo “piano industriale”?
La premessa di Calenda è ben poco confortante per l’Italia e per lo stesso premier Matteo Renzi: “I dati di questi giorni sulla produzione industriale e le risposte che vengono dai partner europei sembrano indicare che la crescita rimane una chimera, così come la disponibilità verso una richiesta di maggiore flessibilità”, scrive il viceministro.
Quindi che fare? “Non c’è altra strada che mettere nero su bianco un piano industriale per l’Italia che definisca le iniziative ordinarie e straordinarie da intraprendere”. L’obiettivo, è il consiglio di Calenda, è “concentrare le iniziative sulla competitività dell’offerta piuttosto che sullo stimolo della domanda”. Come dire: i bonus Irpef non bastano e forse non sono neppure efficaci. Ma questo, ovviamente, un viceministro non lo dice e forse neppure lo pensa.
Però Calenda indica tre “direzioni” tracciate già dal decreto Competitività su cui proseguire con “maggiore incisività”. Prima direzione: riforma del lavoro anche con il “superamento dell’articolo 18”. Seconda direzione: taglio drastico dell’Irap (e liberalizzazioni, specie su “utilities nazionali e locali”). Terza direzione di marcia: “Ripresa degli investimenti pubblici nei settori strategici che hanno un impatto sulla competitività del Paese e delle imprese”.
Una bestemmia, o quasi, parlare di “investimenti pubblici” per i turbo liberisti in servizio permanente effettivo (soprattutto sulla stampa cartacea, spesso sussidiata direttamente o indirettamente dallo Stato).