L’attesa assoluzione in appello al processo Ruby, dove era indagato Silvio Berlusconi per prostituzione minorile, è certamente un passaggio importante nella lunga e dura battaglia tra magistratura e politica aperta con Mani Pulite più di vent’anni fa. L’accusa per la quale il già presidente del Consiglio era stato condannato in primo grado a sette anni di reclusione, senza prove e senza obiettività, è stata invalidata perché “il fatto non sussiste”.
Il primo commento a caldo è di soddisfazione, specialmente per i milioni di cittadini che votando l’ex Cav. gli hanno affidato in molte occasioni un mandato politico vigoroso come leader del centrodestra. Il secondo pensiero va al potere giudiziario che, in questa vicenda, ha dimostrato di essere una vera e propria super sovranità, in grado di piegare e orientare le volontà dei cittadini, abbattendo i suoi riferimenti personali, per stabilire a distanza di poco tempo valutazioni e giudizi contraddittori sul proprio operato. Una follia che non è nulla di strano in un sistema che contempla, neanche a farlo a posta, ben tre gradi di giudizio. Certo, viene spontaneo domandarsi, come mai chi decide del destino di uomini così rappresentativi, sbagliando clamorosamente, non debba poi assumersi la responsabilità almeno civilmente dell’errore. Questo privilegio è semplicemente assurdo e totalmente inaccettabile.
Il problema è noto, d’altronde, ed è tanto grande che quasi non si riesce più a esprimere. La magistratura con l’assoluzione di Berlusconi ha decretato però stavolta perfino qualcosa di più: ha condannato se stessa. Ha riconosciuto cioè che un politico simbolo di buona parte degli italiani è stato sottoposto a un giogo mediatico massacrante, ingiusto e inutile, che l’ha portato fino a una condanna distruttiva e delegittimante, la quale in realtà è stata non un errore ma una macchinazione politica. Se aggiungiamo a questo il fatto che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da presidente del CSM, compiva nel frattempo note trame internazionali per disarcionare Berlusconi da Palazzo Chigi, allora non è così insensato gridare a un vero e proprio colpo di Stato istituzionale.
Anche se tutto ciò sembra confermato dai fatti, resta evidente tuttavia che la guerra tra la politica e la magistratura l’hanno vinta lo stesso i giudici. E se il proscioglimento fosse conseguenza dell’accordo del Nazareno, allora le cose sarebbero addirittura tragiche: ci troveremmo ad avere un potentato giudiziario che decide di assolvere quando è utile farlo, minacciando di condannare in caso contrario, avallando un comportamento che, dal punto di vista morale, è peggio di sbattere in galera ingiustamente un imputato. E’ un atto, infatti, che tende a instaurare un regime e a mantenerlo, concedendo grazie ad hoc quando servono alla conservazione di uno status quo ritenuto favorevole e positivo.
Berlusconi sicuramente ha vinto questa partita, ed è normale, pertanto, che i suoi facciano urla di giubilo. Non è però pensabile che da questa liberazione possa venire fuori una soluzione decisiva al problema scottante del Paese e lacerante del centrodestra. Con il processo non è stato abbattuto unicamente un leader legittimo, ma è stato inibito l’esercizio della sovranità popolare, la quale oggi resta comunque priva di un’adeguata e autonoma guida personale e relegata nel disimpegno passivo.
E’ impossibile, a ogni buon conto, tornare indietro. E a Berlusconi e ai suoi elettori nessuno potrà ridare gli anni e le occasioni perduti. Quella del caso Ruby, infatti, è l’importante conferma della persistenza in Italia di una guerra civile che non si risolve certo ora con la clemenza concessa a un avversario vinto e sfibrato. E l’assoluzione odierna data dai magistrati non è, quindi, una soluzione al deficit democratico che vive il Paese, ma la benedizione del nuovo corso storico da parte di quel soggetto istituzionale che è e resta arbitro unico e assoluto delle sorti nazionali.