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Come affrontare le crisi in Irak e Ucraina

Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali

Un convoglio di profughi è stato bombardato in Ucraina, mentre cercava di lasciare la zona dei combattimenti: forse sono stati i miliziani filo-russi, ma questi accusano l’Esercito ucraino. Il gigantesco convoglio di aiuti umanitari messo insieme dalla Russia è ai confini con l’Ucraina, ma ancora non passa, anche se sembra sia stato raggiunto un accordo sulle procedure di ispezione e distribuzione.

Ma la Croce Rossa, che dovrebbe prendere il controllo dell’operazione, continua a parlare di tempi lunghi. Nel frattempo cresce il coinvolgimento “umanitario” (ma anche esplicitamente militare) degli occidentali in Iraq, e forse in un futuro prossimo anche in Siria. Ci sono tutti gli elementi per suggerire il rischio di uno “scambio ineguale”, che lascia agli Usa ed alleati mano libera in Medio Oriente, e consente a Mosca di intervenire ancora più apertamente di quanto già non faccia (ma sempre per ragioni “umanitarie”) nella guerra civile ucraina.

ATTENZIONE ALL’USO DISTRORTO DEI PRECEDENTI

Questo è il rischio dei “precedenti”, che possono essere piegati e strumentalizzati ai fini più diversi, ma in questo caso essi pongono un problema evidente ed irrisolto: come bloccare o almeno moderare i conflitti, in un mondo più multipolare e quando Russia e Stati Uniti non sono perfettamente allineati? E le altre potenze che fanno, in particolare la Cina?

Il Consiglio Affari Esteri dell’Ue ha cercato di affrontare la questione, in una riunione straordinaria a Ferragosto, da un lato chiedendo a tutte le parti di facilitare l’accesso degli aiuti umanitari in Ucraina e dall’altro invitando la Russia a porre immediatamente fine alle sue attività ostili ai confini con la zona di crisi e a ritirare le forze che ha accumulato nell’area.

In particolare ha ammonito la Russia chiedendole di rinunciare ad usare qualsiasi pretesto, incluso quello “umanitario”, per giustificare un suo intervento militare. In cambio ha proposto una conferenza di pacificazione con la partecipazione di tutti i maggiori attori (Usa, Russia, Ucraina, Ue e Osce).

Nella stessa riunione peraltro il Consiglio ha lodato l’intervento militare americano in Iraq, ha chiesto un più sostenuto aiuto umanitario alle popolazioni, incluse operazioni per facilitare l’evacuazione di profughi, e ha appoggiato la decisione di fornire armamenti ai curdi.

Nel contempo ha incoraggiato il nuovo premiere designato iracheno, Haider Al Abadi, a compiere ogni sforzo per formare un governo aperto a tutte le componenti politiche, religiose e etniche. È evidente la diversità politica delle due situazioni, ma anche la difficoltà di esplicitare una strategia del tutto coerente ed universalmente accettata.

LA DEFINIZIONE DEL TERRORISMO

Non è certo la prima volta che questo accade. Conflitti analoghi hanno diviso le Nazioni Unite negli anni della decolonizzazione, e per lunghissimo tempo hanno impedito la stessa formulazione di una definizione condivisa del termine “terrorista”, secondo la formula sin troppo abusata che il terrorista dell’uno può essere il combattente per la libertà dell’altro.

C’è voluto l’arrivo del terrorismo internazionale in tutta la sua ferocia per spazzare via queste resistenze “politichesi” e arrivare all’apprezzamento della minaccia comune e condivisa. Ora l’IS cerca di confondere le acque dando una forma pseudo-statuale alla sua identità: ma in realtà la rivendicazione del “califfato” non ha limiti territoriali e non si distingue che tatticamente dal terrorismo internazionale degli altri gruppi jihadisti.

Più tradizionale è il principio della immutabilità delle frontiere mediante l’uso della forza. Questo principio giustifica certamente (in aggiunta a tutte le altre ragioni) la sconfessione dell’IS, ma è già stato violato dalla Russia in Crimea (e, secondo il Presidente Putin, dalla Nato in Kosovo) e potrebbe creare problemi in futuro con i curdi.

In effetti sembra difficile riuscire a trovare una soluzione che non sia in primo luogo politica, e questo significa arrivare ad un accordo con paesi quali la Russia e l’Iran, che sia accettabile insieme per le maggiori potenze e per i paesi dell’area.

Sino ad allora bisognerà prepararsi ad affrontare con decisione, e senza troppe illusioni, ogni sorta di distorsione tattica del diritto internazionale. Ciò non dovrà impedire, quando necessario, l’uso della forza militare. Al contrario: è in situazioni confuse di questo genere che è necessario riportare con decisione i fatti essenziali al centro della questione, spazzando via gli opportunismi collaterali.

Tuttavia bisognerà anche ricordarsi di mantenere bene aperti e funzionanti tutti i canali politici e diplomatici necessari per arrivare a una soluzione del conflitto che le armi, da sole, non riusciranno a garantire.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI

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