C’è una motivazione prevalentemente politica dietro le dimissioni del premier francese Manuel Valls, osserva Jean-Pierre Darnis, esperto di cose francesi e vicedirettore area sicurezza-difesa dell’Istituto Affari Internazionali. Il presidente François Hollande gli ha chiesto nuovamente di formare un governo, ma alla base del gesto clamoroso c’è lo scontro con il ministro dell’Economia, secondo cui il consolidamento fiscale forzato, in Francia come in Europa, è una “assurdità” finanziaria.
Il passo indietro di Valls cela il fallimento delle misure di riduzione del disavanzo?
Innanzitutto credo sia dettato da un motivo congiunturale, per via del ministro dell’economia Arnoud Montebourg e anche di alcuni pezzi del partito socialista che, con una crescita così insoddisfacente sommata ai risultati piuttosto mediocri della Francia, hanno chiesto un cambio di passo. Sono ancora keynesiani e chiedono altre misure per la crescita europea, con interventi di rilancio della spesa. Sostengono che i tagli alla spesa pubblica non producono effetti positivi.
Come è stata giudicata la politica di Valls?
La politica rigorosa di Valls è stata fortemente avversata dalla sinistra. E’ chiaro che il premier non ha gradito le esternazioni di Montebourg che, pur facendo parte della compagine governativa, ha avanzato forti critiche all’esecutivo.
Quale lettura dare quindi alle dimissioni?
Ci sono secondo me due tipi di interpretazioni. La prima è che chi sta al governo deve appoggiare le scelte del governo con atteggiamenti coerenti. La seconda è quella politica, con l’incertezza europea legata a Valls, se sia o meno in grado di sostenere un’agenda di crescita. Ciò sembra piuttosto difficile, dal momento che il processo di riforme in Francia è molto debole.
In un’intervista a Le Monde, Montebourg ha detto che “così si gettano gli europei nelle braccia dei partiti estremisti”. E’ così?
La crescita di partiti estremisti è un dato di fatto che ormai registriamo da anni: con motivi strutturali e congiunturali. I primi sono dettati dalla sofferenza economica, per cui quell’equazione verrebbe facile da fare. Però, guardando alle cause congiunturali, in Francia il sistema maggioritario fa rimanere in Parlamento solo due partiti. Così gli altri restano esclusi e non possono prendere parte a governi di coalizione che possono essere certo più fragili ma possono trovare dei compromessi. Penso al rifiuto di giungere a tali compromessi, come sta avvenendo in Italia con il M5S di Beppe Grillo.
Ma il Front National è stato il primo partito alle europee…
Certamente vedo un trend europeo di instabilità e precarietà, a cui fa seguito la crescita degli estremi. Ma nel caso francese c’è una vera responsabilità politica non solo legata al riformismo economico che appare impossibile da realizzare, dal momento che nessuna categoria sembra disposta a rinunciare a qualcosa, ma anche al sistema politico dal momento che il maggioritario non è più adatto al paese. Si pensi che il Fn non è al momento rappresentato da alcun deputato. Per cui su quell’aspetto Montebourg ha avuto gioco facile.
Quanto ha influito il rigore europeo sulle attuali difficoltà francesi? In Italia ad esempio si stanno raccogliendo le firme per un referendum sul fiscal compact…
Non credo, perché si è già visto cosa fecero i socialisti nel 1981 quando fecero schizzare la spesa pubblica con una gestione delirante dell’economia. Per poi dopo due anni tornare al rigore. Da quel momento la struttura economica francese non è più variata, perché è necessario tenere i conti in ordine. Ma tra Italia e Francia c’è una differenza legata alla spesa pubblica.
Quale?
In Francia è produttiva, in Italia no. Per cui se Parigi la tagliasse, nel medio e anche nel lungo termine, ci sarebbe anche un taglio della produttività. Stabilito ciò, è chiaro che un certo riformismo che potrebbe anche liberare nuove energie produttive non c’è e non si vede da anni. Inoltre con l’assoluto rifiuto dell’immigrazione dovuto al trauma post questioni algerine, la Francia non ha più assorbito nuove forme di demografia. Per me la questione è più politica che economica.
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