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Il peso delle lobby mediorientali in USA: la Turchia

Attualmente il ruolo principale dei lobbisti assunti dalla Turchia per operare tra le trame del Congresso americano, è quello di recuperare un rapporto che nel tempo è andato via via peggiorando. Soprattutto nell’ultimo anno.

Ne sono passati di giorni da quanto Obama indicava, in visita a Ankara, la Turchia come modello possibile di conciliazione tra Islam e Occidente. Era il 2009. Poi il caos siriano, le azioni del generale Sisi (per arrivare alla messa al bando della Fratellanza Musulmana), fino da ultimo l’operazione Protective Edge con cui Israele ha attaccato Hamas a Gaza. Argomenti di contrasto tra le due diplomazie, tanto che è stato lo stesso Erdogan ad ammettere che, mentre prima aveva un filo diretto con la Casa Bianca, adesso i rapporti sono tenuti in piedi dai rispettivi ministeri degli Esteri. Freddezza. Diplomazia.

Dietro, a congelare le relazioni, c’è anche la preoccupazione americana – espressa pure dal nuovo ambasciatore John Bass in occasione della sua audizione con la Commissione Esteri del Senato – per una deriva autoritaria assunta dall’esecutivo di Erdogan. Agli americani non piacciono troppo le modifiche alla costituzione che il premier vorrebbe apportare e nemmeno le reazioni al dissenso (le repressioni di piazza, i blocchi ai social network, il controllo sui giornalisti e via dicendo).

Invertire questa impressione sugli uomini del Congresso – e sui cittadini americani – costa alla Turchia più di due milioni di dollari all’anno in attività di lobbying e pubbliche relazioni.

Due realtà su tutte: quella dell’ex leader democratico alla Camera (dal 1989 al 2003) Dick Gephardt, alla guida del Gephardt Group, e quella rappresentata dall’ex campionessa di nuoto Huma Gruaz, regina delle pr di Chicago, Ceo della Alpaytac (a maggio ha strappato ai turchi un incarico flat da oltre un milione di dollari).

C’è molto da fare. I temi grossi sono tutti sul tavolo, come si diceva, e la situazione è molto complicata. La Turchia chiede agli Stati Uniti di aumentare il sostegno ai ribelli siriani, ma si sa che Washington ci va con i piedi piombati, e vuole evitare al massimo il coinvolgimento. Ankara inoltre, è stata molto critica sul rovesciamento del governo egiziano dell'”amico” Mohammed Morsi, mentre – a conti fatti, e scottati dalle derive islamiste delle Primavere arabe – gli Stati Uniti adesso trovano nel generale Sisi una buona spalla contro i rischi del radicalismo islamico.

Poi c’è il dossier Israele. La posizione statunitense a sostegno dello Stato ebraico non è un segreto – con tutti i distinguo del caso. Dal lato opposto i turchi: Erdogan ha definito le azioni di Tel Aviv «dieci volte peggio del regime nazista». In mezzo l’uscita diplomatica del Segretario di Stato John Kerry, che una settimana fa aveva coinvolto la Turchia – ormai unica spalla di Hamas, insieme al Qatar – nei negoziati di pace per il conflitto in corso, appoggiandone ufficialmente la proposta di tregua. Scelta che aveva suscitato le ire israeliane e su cui lo stesso presidente Obama aveva dovuto mettere una toppa, in una telefonata con il primo ministro Netanyahu.

Si dirà che Kerry aveva dato una spinta diplomatica alla Turchia, riposizionandola sulla scena internazionale. Così come aveva cercato di fare il vice presidente Joe Biden, quando lo scorso anno aveva espresso interesse a negoziare un trattato di libero scambio con la Turchia, in riposta ai timori di Ankara di restare tagliata fuori dagli accordi commerciali USA-UE.

I problemi che Gruaz e Gephardt devono affrontare sono complicati anche da questioni di politica interna. La lobby armeno-americana, molto potente, sta spingendo da tempo affinché gli Stati Uniti definiscano il Medz Yeghern con la parola “genocidio” – si tratta dell’uccisione di oltre un milione e mezzo di armeni, tra il 1915 e il 1916, ad opera del governo dei Giovani Turchi. Lo scorso anno, inoltre, il rappresentate repubblicano Gus Bilirakis e quello democratico Ted Deutch hanno costituito la Congressional Hellenic-Israel Alliance, associazione bipartisan nata per tutelare gli interessi di Grecia, Israele e Cipro, all’interno delle stanze di Washington. Inutile dire, che allo stesso modo delle pressioni armene, l’iniziativa dei tre Paesi mediterranei ha scontentato la diplomazia turca.

Per cercare invece di equilibrare il dialogo dei turchi-americani con Capitol Hill, è nata nel 2007 la TCA (Turkish Coalition of America), non finanziata direttamente dal governo di Anakara, raccoglie fondi privati per diffondere il punto di vista turco sui principali temi di dibattito – il caucus di reggenza dell’associazione, è composto da membri sia repubblicani che democratici.

Dietro TCA c’è il milionario del Massachusetts Yalcin Ayalsi, dietro ancora gli interessi di 500 mila turchi-americani da tutelare. TCA lavora molto sostenendo viaggi e incontri – abbondantemente spesati – tra i legislatori dei due paesi (dal 2000 ha organizzato oltre 170 visite, per un totale che supera il milione di dollari di finanziamento). Inoltre TCA, così come la famiglia Ayalsi, ha finanziato per diverse centinaia di migliaia di dollari i propri uomini del Congresso.

Sul piatto c’è un rapporto da ricostruire, tra due paesi un tempo vicini e ora molto allontanati – sotto al piatto, una serie di basi Nato e americane (come quella nucleare di Incirlik), dispiegate in diverse aree della Turchia, che sono l’assicurazione principale sul futuro di quel rapporto e sul perché non andrà di certo perso.

@danemblog

 

 

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