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Il peso delle lobby mediorientali in USA: l’Iraq e il Kurdistan

Nel ricostruire la decisione di Barack Obama, con cui giovedì ha dato il via libera a raid aerei mirati sull’Iraq – di nuovo, a tre anni di distanza dall’abbandono militare del paese – molti hanno letto l’influenza delle lobby irachene e soprattutto curde. Un’azione di pressione che nelle ultime settimane si era intensificata, con l’IS che si consolidava e all’esercito iracheno che non dava per niente l’impressione di poterlo contrastare. Solo i peshmerga curdi rappresentavano – seppur con armamenti limitati – un barlume di resistenza, ma davanti alla nuova offensiva nord orientale degli uomini dello Stato Islamico, senza aiuto aereo poco avrebbero potuto fare.

Erbil rischiava di cadere sotto i colpi dell’artiglieria del Califfato – armamenti rubati all’esercito iracheno, dunque di origine statunitense – e così gli di F/A 18 americani si sono alzati per ben due volte venerdì, con l’obiettivo di colpire alcune delle postazioni di fuoco. Erbil è un centro importante, sia perché nell’area gli “advisor” militari americani (inviati sul posto una mesata fa), hanno impiantato una postazione logistica – come fecero già nell’invasione del 2003, adesso si trovano a meno di un’ora di macchina da Mosul, capitale del neonato califfato.

Sia per la sua rappresentanza simbolica. È il centro della regione autonoma del Kurdistan (patrimonio Unesco, per altro): territori senza Stato, ma con una capitale.

I crudi, oltre che militarmente, hanno risposto anche a livello umanitario all’emergenza irachena. A Erbil nelle settimane seguenti la presa di Mosul, sono arrivati migliaia di sfollati a cercare rifugio. Molti cristiani, molti altri yazidi – gli yazidi sono vittime proprio in questi giorni di una folle persecuzione, con gli uomini dell’IS che li hanno costretti sulle montagne alle porte del Kurdistan, facendoli morire di fame, sete e caldo, tanto che insieme agli aistrike Obama ha inviato C-17 e C130 che hanno paracadutato viveri sui fuggitivi. Il quartiere Ankawa, zona cristiana di Erbil, è oltre la saturazione: sono settimane che arrivano i profughi iracheni cacciati da Mosul (dove si trovava la più grande comunità cristiana del paese).

Poi ci sono i soldi delle multinazionali del petrolio, che hanno investito nella città curda in cambio delle promesse sulla possibilità di sfruttare immensi giacimenti regionali, quasi vergini.

A Washington la risposta insider allo sfacelo del Califfato, si chiama Tony Podesta, lobbista storico per società di primissimo piano come Bank of America e BP (ha lavorato anche per l’Egitto) e dietro alle campagne di politici del calibro di Ted Kennedy, George McGovern, Michael Dukakis e Bill Clinton.

Podesta (nominato più volte lobbista più potente della capitale insieme al fratello John e alla cognata Heater) guida il Podesta Group, che ha lavorato un po’ per gli aiuti al processo democratico (malauguratamente targato Maliki), ma di più per il sostegno militare in favore dell’Iraq. Qui i risultati sono stati abbastanza soddisfacenti (almeno sulla carta), con mezzi e training già attivi da tempo e con l’invio di altre forze speciali come consulenti sull’emergenza (i cosiddetti “advisor”), che sono arrivati via via a oltre 800 unità. Di questi giorni la scelta dei raid, altro successo per chi spingeva per il ritorno ad un impegno più attivo degli Stati Uniti: ma la Casa Bianca resta comunque scettica e riluttante, va detto.

E pure il Congresso non è che sia granché compiaciuto degli sforzi portati avanti fin qui: il 24 luglio, durante un suo intervento, il senatore democratico Robert Menendez, presidente della Commissione relazioni estere del Senato, affermava di essere molto critico su nuovi invii di armi “a chi li ha fatti cadere nelle mani del nemico o le ha abbandonate sul campo di battaglia”. Ballano elicotteri Apache, caccia e Humvee da spedire alle truppe di Baghdad, e certo che i video degli uomini del Califfo alla guida di alcuni di quei mezzi americani già recapitati, non è un gran segno di incoraggiamento.

Il legislatori americani vogliono vederci chiaro: cercano un governo più inclusivo, vogliono garanzie che cessi il settarismo del fidato premier Maliki – finito fuori controllo troppo presto – chiavistello dell’infiltrazione dell’IS, con i sunniti vessati e (ovviamente) scontenti che hanno accettato le forze dello Stato Islamico come una sorta di liberazione. All’inizio, almeno fino a quando non hanno visto le teste per strada e le follie della sharìa ultra radicale.

Il gruppo Podesta ha affidato le operazioni di lobbying a Stephen Rademaker, ex Assistant Secretary of State for International Security and Nonproliferation durante l’Amministrazione di George W. Bush, e uomo molto vicino al vicepresidente Joe Biden – a cui Obama ha passato il file Iraq.

Ma non solo Baghdad. Nei primi giorni di luglio, alcuni funzionari del governo curdo avevano fatto tappa a Washington per presentare il proprio progetto di indipendenza. Gli uomini del presidente Massoud Barzani hanno messo sul piatto la cruda evidenza dei fatti: l’Iraq sta cadendo, noi restiamo in piedi – «Siamo la nuova realtà» era lo slogan. La posizione ufficiale della Casa Bianca resta, ancora, contraria alla separazione: non tanto perché un Iraq unito sia necessario per la stabilità, ma perché le concessioni al Kurdistan iracheno potrebbero fare da pretesto per situazioni analoghe in Turchia e Siria (e Iran), territori rivendicati dai curdi in altre focali aree mediorientali. Ma per il futuro nessuno può mettere la famosa mano sul fuoco.

Barazani è determinato: lavora per un referendum indipendentista tanto quanto per una stabilizzazione nel governo centrale che possa portare a un dopo-Maliki credibile. Ha fatto sapere che se il suo popolo deciderà, sarà pronto a sostenere formalmente la ricerca di una completa autonomia o addirittura dell’indipendenza. Non teme Baghdad – con cui si è scontrato diverse volte per i sovvenzionamenti alla propria regione e per i finanziamenti alle forze di sicurezza curde (i peshmerga). Non teme l’America: quando Obama ha chiesto di non iniziare la vendita di petrolio indipendentemente, ha risposto inviando carichi addirittura ad Israele, con il pensiero di fondo che prima o poi gli Stati Uniti avrebbero accettato la presenza curda nel mercato dell’energia. Ha difeso il proprio territorio con i denti, con la sua etnia vittima di attacchi incrociati dell’IS anche in Siria; ha preso – con l’occasione della difesa nei giorni di Mosul – il controllo di Kirkuk, capitale del petrolio e città ancestrale per i curdi.

E non solo forza sul campo, ma anche diplomazia e relazioni. Il Kurdistan sta investendo quasi un milione l’anno su uomini di Washington, per ottenere più spazio nei media e nel dibattito pubblico. Società come la Patton Boggs hanno messo in piedi il sistema di pr, aiutate anche da uomini potenti nell’apparato diplomatico statunitense: uno su tutti, l’ex ambasciatore americano in Iraq Zalmay Khallizad, personaggio influente anche all’interno degli uffici delle Nazioni Uniti (dove è stato il rappresentante americano).

Chissà se l’aiuto aereo – formalmente fornito a Baghdad, ma in effetti a beneficio di Erbil – è la dimostrazione che quel viaggio a Washington dei primi di luglio abbia portato riposte positive. Alcuni analisti ritengono che gli Stati Uniti sono molto vicini all’appoggio pubblico sull’autonomia, ma non possono farlo – a maggior ragione adesso – per non rischiare di avallare la disintegrazione dell’Iraq.

I curdi dovranno aspettare un po’: mosse verso l’indipendenza in questo momento potrebbero essere tanto dirompenti quanto controproducenti. Ma tutti sanno che, dopo la creazione del Califfato, il ritorno allo status quo è praticamente impossibile. E nel suo piano, il Kurdistan potrà contare anche sulle amicizie nel mondo del petrolio, realtà – inutile dirlo – molto influenti tra gli uffici del Congresso.

Attesa. Una parola antropologica per i curdi: ma forse stavolta è la volta buona.

@danemblog

 

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