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Giulio Sapelli: la vendita delle quote Eni e Enel mi ricorda le fallimentari privatizzazioni anni ‘90

L’intenzione del governo di vendere entro l’anno partecipazioni minoritarie detenute dal Tesoro in Eni e Enel per un ricavo complessivo di 5 miliardi di euro sta alimentando un vivace confronto nel mondo giornalistico e accademico.

Un punto di vista originale è illustrato dallo storico ed economista Giulio Sapelli, tra il 1996 e il 2002 componente del consiglio di amministrazione del Cane a sei zampe e ricercatore emerito presso la Fondazione Eni Enrico Mattei.

Come valuta l’ipotesi di alienare limitate quote del Tesoro in Eni ed Enel?

Le due compagnie presentano dimensioni ridotte, e hanno bisogno di crescere. Anziché essere privatizzate, dovrebbero attrarre nuovi investimenti e accrescere la platea degli azionisti. Vendere il 5 per cento di entrambe le aziende per ricavare una goccia nel mare del debito pubblico mi ricorda la logica che ispirò le privatizzazioni fallimentari degli anni Novanta.

Fallimentari?

Certamente. Furono cessioni “spezzatino”, e non vendite di imprese a grandi gruppi. Un grande bottino per i privati, che non favorì lo sviluppo economico, non ridusse in forma permanente il passivo di bilancio, preparò il terreno propizio per la decrescita in cui siamo arenati.

Non è positivo per lo Stato scendere sotto la quota del 30 per cento nelle due imprese?

Sinceramente non vedo il bisogno di un’iniziativa che rischia di essere un atto di alchimia finanziaria. E presentare come una novità il calo al 25 per cento della partecipazione azionaria statale nelle aziende è segno di scarsa conoscenza dei processi industriali.

È giusto alienare ora il 5 per cento di Eni e Enel dal punto di vista dei valori di Borsa?

Il valore di entrambe le compagnie nel mercato dei capitali è calato, anche se si tratta di industrie in salute. Ma la fase attuale presenta un’estrema volatilità nell’andamento dei titoli azionari, in crescita a Wall Street ma in calo nelle piazze finanziarie europee.

Tali iniziative possono aggredire il macigno del debito pubblico?

Assolutamente no. Per promuovere un risanamento permanente dei conti pubblici bisogna pensare a interventi coraggiosi e radicali come il fondo concepito da Paolo Savona. È l’unica strada seria. Le altre sono operazioni di subalternità culturale all’austerità neo-liberista.

È vantaggioso l’accordo raggiunto tra Mario Draghi e Matteo Renzi per un’immissione di liquidità da parte della BCE in cambio di riforme strutturali?

Le riforme strutturali non possono consistere nelle privatizzazioni e nell’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro. La Spagna, che ha privilegiato questa direzione di marcia, registra cifre fallimentari sul tasso occupazionale. Le innovazioni radicali passano per la ripresa degli investimenti pubblici e la riduzione del peso del fisco. È l’investimento che crea profitto e non il contrario, come insegnava a Draghi il suo maestro Federico Caffè.

La convince il progetto di Fondo Europeo di Redenzione per condividere e risanare i debiti sovrani tramite Euro Union Bond garantiti dal patrimonio industriale, valutario e fiscale nazionale?

Ma per carità. È lo stravolgimento dell’eccellente proposta formulata tempo fa da Vincenzo Visco per una gestione comune delle quote eccedenti il 60 per cento del rapporto tra debito pubblico e PIL. Tesi concepita sulla scia del progetto di Euro Union Bond promosso da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio nel 2011.

Perché non è accettabile l’ERF?

Le relazioni tra Stati non sono rapporti mercantili fondati sul libero mercato e sull’assenza del debito pubblico. Parametri peraltro mai applicati dalla Germania, che nella storia è sempre stata salvata grazie ai “piani Marshall” messi in campo da Stati sovrani. È necessario insorgere di fronte a proposte del genere, inutili e nocive come il Fiscal Compact. Programmi che porterebbero alla fine dell’Europa. Se le istituzioni comunitarie perseverano in una linea diabolica, il Front National di Marine Le Pen arriverà al 50 per cento dei consensi.


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