Gli Stati Uniti hanno da poco bombardato alcune postazioni dell’Isis in Irak, dopo il via libera dato ieri dal presidente Barack Obama. La mossa degli Usa è nata con l’intento di proteggere il personale americano nell’area, ma anche per porre un argine alle violenze del gruppo jihadista che mette in pericolo le minoranze religiose, in primis quella cristiana, protagonista suo malgrado di un vero e proprio esodo verso il Kurdistan iracheno.
Una crisi che per Alessandro Politi, analista politico e strategico e direttore della Nato Defense College Foundation, è solo il pezzo di un complesso mosaico. Ecco quale in una conversazione con Formiche.net.
Professor Politi, cosa accade in Irak?
Accade che per una serie di ragioni assistiamo a un grande arco di crisi che va dal Mali e si conclude in Ucraina. L’Irak è solo uno dei teatri di questa instabilità diffusa.
Da cosa dipendono queste crisi?
Da una combinazione di fattori. In primo luogo fragilità interne: non è facile costruire uno Stato nazionale in pochi decenni. Poi ci sono le manipolazioni da parte di potenze esterne. Infine gli effetti della globalizzazione.
La crisi irachena ha portato a un esodo di massa dei cristiani nel Paese e a una violenza crescente. Per porre argine a questa emergenza umanitaria il presidente Obama ha autorizzato un intervento aereo. Come valuta questa scelta?
Il capo di Stato americano interviene non solo per motivi umanitari e per proteggere i cristiani, ma anche per ragioni economiche. L’Isis potrebbe invadere il Kurdistan iracheno, dove si trova la maggior parte delle riserve petrolifere del Paese.
La Chiesa Cattolica, generalmente contraria all’uso della forza (anche in Irak contro Saddam), ora ritiene auspicabile un intervento militare con finalità umanitaria. Come mai?
Normalmente la Santa Sede ritiene questi mezzi opportuni solo per evitare ingiustizie, oppressioni o rischi maggiori. Ad essere colpite sono tutte le minoranze religiose, sia i cristiani ma anche gli yazidi, i primi in fuga verso il Kurdistan iracheno e i secondi verso la Turchia.
Su Formiche.net, Paolo Messa ha lanciato un appello per la costituzione di una “coalizione contro il terrore”. Che ne pensa?
Non è un’idea errata, ma deve partire dal concetto che non c’è una bacchetta magica per risolvere una crisi così complessa. Il vero avversario non è il terrorismo o il terrore, ma l’instabilità e la disintegrazione degli stati che lasciano campo libero a qualunque milizia o condottiero armati; ricordiamoci la Jugoslavia. Un coalizione internazionale dovrebbe iniziare dallo stabilire una chiara suddivisione dei compiti, per gestire in modo efficace crisi così allargata. In questo però è essenziale il ruolo dell’Europa e quello di Israele, che va convinta a chiudere le ostilità con i palestinesi. Ci deve essere un lavoro serio di ricostruzione come lo si è svolto nei Balcani.
Cosa dovrebbe fare il Vecchio Continente?
Finora ci si è nascosti dietro all’idea che è difficile per l’Europa parlare con una voce sola vista la divergenza di interessi. Certo, non è facile trovare una sintesi, ma nemmeno impossibile. Anche le colonie americane non vedevano tutto allo stesso modo. I grandi Paesi europei, capaci di trainare gli altri, devono parlarsi per trovare strategie comuni di politica estera, altrimenti in mondo così cambiato il Vecchio Continente sarà destinato all’irrilevanza.
Chi dovrebbe fare parte di questa coalizione?
Credo che in un arco di crisi così ampio ci sia bisogno di rendersi conto di volta in volta cosa conviene di più fare. Nonostante tutti i suoi limiti l’Onu continua ad essere il soggetto meglio considerato in molte regioni. Anche un’iniziativa europea in Nord Africa non sarebbe da scartare. Un ricorso alla Nato sarebbe invece da valutare più attentamente. Non è da scartare a priori, ma un ruolo dell’Alleanza Atlantica va meditato tenendo conto di molte variabili, incluse le perplessità che potrebbero avere gli attori locali. Non esiste una ricetta unica: ogni operazione ha bisogno del bisturi giusto.