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Perché è folle strozzare le Camere di commercio. Parla Sangalli (Pd)

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’intervista di Goffredo Pistelli apparsa su Italia Oggi, il giornale diretto da Pierluigi Magnaschi

È uno dei parlamentari del Pd che s’è assunto la mission forse impossible di salvare il salvabile della Camere di commercio in Italia. Matteo Renzi le ha messe infatti nel mirino e ha già ridotto del 50% il contributo camerale obbligatorio, ossia quei 110 euro che mediamente ognuna degli oltre 7 milioni di aziende italiane devono corrispondere alle 105 camere, suddivise su base provinciale.

Settecentottanta milioni all’anno che, talvolta, sono stati spesi male, offrendo ragioni a quanti oggi vorrebbero vederle abolite. Gian Carlo Sangalli, classe 1952, aretino di nascita ma bolognese d’adozione, è in una posizione singolare: è al Senato col Pd, alla seconda legislatura, ma due mandati li aveva fatti anche alla guida della Camera di commercio di Bologna, a cui era arrivato da presidente della Confederazione nazionale dell’Artigianato-Cna, organizzazione di riferimento dei «padroncini» rossi. Posizione che, di fatto, ne sta facendo uno degli ambasciatori del sistema camerale a Roma.

Domanda. Senatore, incontrerà il premier Renzi?

Risposta. Ma no, il presidente del consiglio è impegnato in cose molto più importanti in questo momento. Io e altri vorremmo solo aprire una discussione perché si avvii una riforma profonda del settore, correggendo le storture, senza disperdere il patrimonio di questi anni e possibilmente migliorando il sistema. E poi mi lasci dire una cosa.

D. Prego…

R. Renzi fa bene a fare quello che fa. A minacciare di usare la mano pesante con alcune amministrazioni, incluse le Cciaa, se questo serve a ridurre i costi e ad aumentare l’efficienza. Qui occorre una pesante revisione.

D. Perché insomma, in questi anni, abbiamo trovato le camere di commercio impegnate a spendere nei settori più strani: a finanziare micro-università in ogni angolo del Paese, a impiegare capitali in aeroporti improbabili, persino a fare le case editrici.

R. Beh, un momento, ci sono stati anche gli investimenti positivi. Mi spiace dover parlare della mia presidenza della camera bolognese, però se non avessimo raddoppiato la pista dell’aeroporto Marconi, oggi quello scalo non avrebbe oltre 100 destinazioni collegate, diventando grazie all’Alta velocità, anche un riferimento per Firenze. Un intervento che ha aiutato la comunità economica cittadina, che ha incentivato il turismo. Senza Cciaa a Bologna non avremmo né Fiera, né aeroporto né centroagroalimentare, tanto per citare tre grandi infrastrutture economiche.

D. Allora, senatore, che cosa proponete?

R. Bisogna rivedere il numero delle camere, innanzitutto, e assumere l’omogeneità produttiva dei territori come criterio.

D. Per esempio?

R. Parto dall’esperienza emiliano-romagnola. Abbiamo Bologna, Modena e Reggio con un’economia prevalentemente manifatturiera, e quella potrebbe essere una camera; Parma e Piacenza potrebbero averne una a vocazione agroalimentare, la Romagna un’altra, «specializzata» in turismo. In questo modo scenderemmo sotto la metà degli enti attuali.

D. E poi?

R. E poi mettere in campo attività di misurazione dell’efficienza: non possiamo permetterci sistemi burocratici concentrati più a essere piccoli potentati locali piuttosto che leve di sviluppo del territorio. D’altra parte la riforma del 1993, che trasformò da uffici distaccati del ministero dell’Industria in organismi a enti di supporto delle imprese, governate però dagli stessi imprenditori attraverso le loro rappresentanze, seguiva un certo spirito di sussidiarietà.

D. I guai, senatore, cominciano a onor del vero proprio in questa fase. Gli investimenti disinvolti arrivarono allora.

R. Ci sono state luci e ombre. In alcune situazioni non si rispose allo spirito di quella riforma d’altra parte, come spesso accade, le persone e i contesti fanno la differenze. Certo, che le camere siciliane, in virtù di una legge regionale, abbiano assunto direttamente la gestione della previdenza dei propri dipendenti e conseguentemente paghino le loro pensioni è un errore e, nel tempo, è diventato insostenibile: il diritto camerale pagato dalle imprese finisce lì e non viene utilizzato per sostenere il sistema di garanzia sui fidi che è stato fondamentale, in tutta Italia, per aiutare le imprese verso le banche.

D. E il diritto camerale se ne è andato nelle tante università. Senza dimenticare che Unioncamere se n’è creata una tutta sua: la telematica Mercatorum.

R. Sono dell’idea che le università le debbano fare gli atenei stessi. E anche sull’idea di averne una per provincia ho molte perplessità perché non è che l’eccellenza si spalmi come la marmellata, ma mi faccia tornare alle proposte.

D. Ok, senatore…

R. Ridurre il numero delle camere, per aumentarne l’efficienza, in termini di promozione del territorio e di competitività, l’internazionalizzazione, le reti lunghe. E io poi ho un’idea: si trasformino in un sistema di supporto alla piccola e media impresa che è il tessuto economico del Paese.

D. Già, lei col pidiellino Raffaello Vignali, oggi Ncd, nel 2011 riusciste a far approvare una legge sullo statuto delle imprese. Un passo avanti, per quel pezzo di economia.

R. Quello small business act fu approvato all’unanimità, una rarità, credo, in tante legislature. Ecco, il sistema camerale italiano potrebbe diventare una small business administration o un’amministrazione diffusa al servizio delle piccole-medie imprese che dia concretezza agli obiettivi di quella legge.

D. Beh così farete arrabbiare ancora di più Confindustria. L’ha letta, vero, la lettera di Giorgio Squinzi a Renzi sulle camere di commercio?

R. Certo che l’ho letta. È una posizione dura e nota. Diciamo che Confindustria, che aveva una grande influenza sul ministero dell’Industria, non ha mai gradito la riforma del ’93. Però se lei va a vedere laddove la Cciaa è presieduta da un industriale, troverà la locale associazioni industriali meno irritata. Ma sarebbe sbagliato che si opponessero a una visione del ruolo camerale a favore delle Pmi: le grandi aziende hanno e avranno bisogno del supporto diretto del governo, come è giusto che sia. Come tutti i grandi leader internazionali, anche Renzi, quando va all’Estero, si fa accompagnare dai rappresentanti delle nostre grande industria. Per le piccole e medie questa funzione la potrebbero svolgere le nuove camere.

D. Senatore, lei prima ha evocato giustamente il principio di sussidiarietà. Ma perché non applicarlo fino in fondo, rendendo facoltativo il diritto camerale? Laddove le camere fanno un lavoro utile, sarebbero i territori ben contenti di sostenerle.

R. Le esperienze all’Estero ci mostrano che non funziona. Le aziende spontaneamente non contribuiscono. Paesi come Spagna e Olanda sono tornati indietro. E sa che succederebbe se lo facessimo?

D. Mi dica…

R. Che quelle opere necessarie alle economie del territorio, come il già citato allungamento della pista di un aeroporto, finirebbero a carico della fiscalità generale, cioè se lo pagherebbe anche il pensionato che non prende mai l’aereo. Il diritto camerale è una sorta di tassa finalizzata alla promozione economica del territorio, al sostegno al credito delle piccole imprese, alla creazione di infrastrutture economiche. Finora le aziende si sono assunte questo onere. Se lo togliessimo, non è che quelle esigenze verrebbero meno, e gli enti locali non hanno certo gli strumenti per far fronte, in questo momento. Però c’è un punto che, comunque vadano le cose, è importante che resti tale: il registro delle imprese.

D. Che qualcuno vorrebbe privatizzare, infatti…

R. Lo so, qualcuno in Confindustria lo dice, ma sarebbe un errore gravissimo. Quello attuale, così com’è gestito dalle camere di commercio è il migliore del mondo, ed è bene ricordarlo, visto che siamo ultimi in tante graduatorie. È importante che di un’impresa si sappia tutto e in modo rapidissimo. Lo sa che negli Stati Uniti ci vuole un detective per avere le informazioni che lei oggi ottiene in Italia con una visura?

D. Torniamo alla riforma, senatore. Di tutte le partecipazioni azionarie detenute della camere che facciamo?

R. È un punto centrale, perché alcuni enti detengono partecipazioni importanti in società che gestiscono infrastrutture come gli aeroporti. La Cciaa di Catania controlla la società che gestisce l’aeroporto cittadino, uno dei più importanti d’Italia, e una situazione simile è a Cagliari. A mio avviso, per queste situazioni, potrebbe nascere una holding in cui conferire questi pacchetti in una logica di valorizzazione, in modo cioè che gli investimenti pregressi degli enti non siano penalizzati. E così per le fiere, che sono spesso in difficoltà, o per le autostrade. Bisogna mettersi a un tavolo e studiare la modalità ma quella è la via.

D. Quanto tempo occorrerebbe?

R. Nel giro di pochi mesi si può arrivare a una riforma efficiente.

D. E quindi che cosa direbbe a Renzi?

R. Che ha avuto il merito d’aver aperto drasticamente il dibattito, ma non di cadere nella trappola dei tagli lineari. Quelli li lascerei, storicamente, a Giulio Tremonti.

D. Qualcuno nel sistema camerale ha sbagliato?

R. Unioncamere, coi fondi di perequazione, per cui le camere ricche aiutavano quelle povere. Alla fine è accaduto quelle efficienti sovvenissero alle necessità di quelle dagli investimenti disinvolti. È stato un errore. Il sistema cioè doveva autoriformarsi e non arrivare al punto in cui siamo.


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