Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Horizon 2020, il programma UE per la Piccola e Media Impresa, prevede un finanziamento di 2,7 miliardi di Euro, per tutta l’Unione, che peraltro non separa equity (la emissione di titoli, come non si sa, e il sostegno al debito bancario) e riguarda per un terzo del totale solo le Piccole e Medie Imprese che abbiano idee “innovatrici”.
Bene: le imprese vivono, lo sappiamo da quando abbiamo letto, ben prima dei tecnici UE, Schumpeter (e anche Keynes) di distruzione creatrice e innovazione.
Ma è forse vero che tutto il PIL ad alto valore aggiunto e le imprese più stabili sono sempre innovative? No.
Il più ricco imprenditore italiano non è un ex-Presidente del Consiglio, ma il titolare di una notissima impresa alimentare e dolciaria piemontese.
Vende la sua crema al cioccolato e nocciole, ottima, in tutto il mondo, da molti anni, e furono attivati perfino i nostri Servizi per fargli vincere una causa in Cina.
L’impresa è solo innovazione continua? No. E’ qualità. Costante e riconoscibile.
E’ quella che conta e che fa durare il prodotto, il processo, la management philosophy e tutte le altre diavolerie che insegnano nelle scuole per “Managers”.
Meno gergo inglese e più attenzione al prodotto e a chi lo fa, che non può essere un povero Cristo che ha imparicchiato una funzione operativa dopo un corso di cinque giorni.
La qualità è sempre senza tempo.
Intanto, le PMI italiane hanno caratteristiche del tutto specifiche: la quota di microimprese italiane, oggi, è la maggiore di tutta la UE, e si tratta del doppio della Germania, 3,81 milioni contro ai 2,06 milioni tedeschi di microimprese (meno di dieci addetti).
Ma le nostre micro-PMI, che sono il 94,8% delle aziende, producono soli il 56% del Valore Aggiunto, rispetto alle aziende equivalenti tedesche.
Allora, solo innovazione? No. Ottimizzazione dei fattori di produzione, piuttosto.
Solo l’undici per cento delle PMI italiane opera in aree ad alto tasso di innovazione tecnologica, di contro al dodici per cento tedesco.
Siamo lì. E allora, cosa manca? Bene, se continuiamo l’analisi, vediamo che le PMI evolute e vincenti nella crisi italians (la Banca Schroder ne ha misurate 327 l’anno scorso) operano per il 30% in settori “maturi” (meccanica e metallurgia) e con ben differenziate storie imprenditoriali a seconda se le Pmi siano collocate al Centro, al Nord, al Sud. La differenza “antropologica”, oggi, si fa più sentire che negli anni passati.
Una soluzione è stata, finora, e non è certo una cattiva idea, l’introduzione dei cosiddetti “minibond”.
Si tratta di un Fondo Minibond PMI Italia operante dal maggio 2013 che ha impostato delle obbligazioni per le Piccole e Medie Imprese nazionali, e che opera con un fondo di garanzia di 51 milioni di Euro.
Il mercato di riferimento per i “minibond” PMI è l’Extramot PRO di Borsa Italiana, con cinque Fondi primari che operano in esso.
Basta? No. La Regione Lombardia ha poi iniziato un suo progetto di entrata di selezionate PMI nel sistema obbligazionario del minibond, e anche questa è certamente una buona cosa.
Ci sono poi le reti ACE (Aiuto alla Crescita Economica) della Banca d’Italia per le imprese che vogliono quotarsi nel mercato Minibond e che, così, accedono a favori fiscali.
Bene, anche qui. Ma, come ci racconta la Relazione Annuale del Garante delle PMI, in data 06.2.2014, che ci sono 10.000 fallimenti di impresa l’anno, livello mai raggiunto prima, con un costo di accesso al credito di 160 punti sopra quello dei colleghi imprenditori europei, il costo dell’energia del 20% in più (e qui basta con i finanziamenti in bolletta alle “rinnovabili” di dubbia utilità).
Quindi, oltre al mercato dei”minibond”, occorre prendere il toro per le corna: a) costituire una Banca per la Piccola e Media Impresa che ospiti funzionari meno intontiti da frasi in inglese e bravi soprattutto a capire l’impresa “in situazione”, senza le ingenuità perfide di Basilea II (e prossimamente III) pensate per il big business ma improponibili per una impresa reale che non manipoli il mercato.
Una Banca per le PMI con il 51% del Ministero dell’Economia e il resto detenuto da un pool di banche di rilevo nazionale.
Poi b) un sistema SACE specifico per le piccole imprese, che devono poter esportare ad armi pari con le grandi e, infine, c) una borsa titoli delle PMI. Autonoma dalla Borsa per i “grandi”, non legata all’oligopolio degli investitori primari, che tratta azioni (e non solo obbligazioni) delle PMI iscritte e che si rivolge al mercato degli investimenti esattamente con gli stessi criteri delle Borse “per i grandi”.
Se non salviamo le PMI, non salveremo l’impresa e il lavoro italiano.
Non sarebbe nemmeno privo di senso un Fondo di Salvezza per le PMI che riduca la dipendenza di esse dalle banche e, soprattutto, dalle cattive banche, con una quota di garanzia da parte dello Stato.
Salvare l’impresa vuol dire salvare la nostra civiltà.
Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa