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Tutte le gabbie che stanno soffocando l’Europa

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class e dell’autore, pubblichiamo il commento di Roberto Sommella uscito sul settimanale Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi

Non bisogna farsi prendere dal triste disincanto della recessione. I dati sulla decrescita che ormai avvinghia l’Italia dal 2009 sono l’epilogo di un mix terribile: stasi dell’innovazione industriale, boom di debito e pressione fiscale, mancanza di riforme, austerity imposta dalle nomenklature europee.

A tre anni dalla famosa lettera della Bce all’Italia sarebbe utile stavolta spedire un messaggio da Roma a Bruxelles e Francoforte: non è il caso di allentare alcuni vincoli di bilancio? È vero che sta all’Italia riformare se stessa per tornare a essere competitiva sui mercati e appetibile per gli investitori esteri, ma non si può negare che una mano ad affossare la terza economia dell’Eurozona l’hanno data i tutori del rigore.

È spietato il confronto tra gli indicatori economici fotografati il 5 agosto 2011, giorno in cui Trichet e Draghi inviarono l’ultimatum al governo Berlusconi a fare le riforme pena la fine degli acquisti dei titoli di Stato da parte della Bce, e quelli di oggi: il pil è a zero come 36 mesi fa, l’inflazione è passata dal 3,3 allo 0,4%, la disoccupazione è esplosa dal 9,3 al 12,6%, il debito è arrivato a oltre 2.100 miliardi contro i 1.900 del 2011 (120% del pil allora, 134% oggi), si sono fatte manovre per 67 miliardi e pagati contributi ai vari fondi salva-Stati per oltre 92 miliardi. Solo lo spread con i titoli tedeschi è diminuito fortemente, calando da 500 a 180, ma i benefici in termini di minori interessi sono una goccia nel mare se l’indebitamento continua a crescere.

Fatto il doverosa mea culpa – in tre anni si sono succeduti quattro governi, alla faccia della Prima Repubblica – è davvero solo colpa dell’Italia non essere riuscita a ripartire? Qualche considerazione da fare, e da inserire in una paginetta di richieste alla Commissione Juncker, ci sarebbe. A cominciare proprio dal vincolo del 3% nel rapporto deficit/pil, che, pare, il governo Renzi rispetterà solo per tener fede agli impegni con l’Europa ma di cui farebbe volentieri a meno, visto lo stato dei conti e le urgenze sociali da affrontare.

C’è infatti un vincolo europeo che non fa male e purtroppo in Italia è ignorato. È il rapporto tra investimenti in ricerca scientifica e pil che, secondo il Trattato di Maastricht, dovrebbe essere almeno anch’esso al 3% della ricchezza nazionale. Molti Paesi del Nord Europa si avvicinano a questo limite, l’Italia è ferma all’1,1%. A frenare questa spesa è anche il fatto che viene computata nei rapporti deficit-pil e debito-pil: sarebbe fondamentale che questo assurdo veto cadesse.

L’Ue, e con essa l’Italia, non possono che guadagnarci, se vogliono davvero agganciare la rivoluzione tecnologica americana. E altrimenti importante sarebbe scomputare dal rapporto deficit-pil la quota di fondi nazionali che stanziata per i programmi cofinanziati con l’Ue. Tale opzione permetterebbe di spendere fuori dai vincoli parecchi miliardi (almeno 15 nei prossimi sette anni di programmazione), dando l’auspicata spinta alle Regioni per portare a termine i piani legati ai fondi comunitari.

Poi c’è il Fiscal Compact, che per l’Italia, in assenza di crescita e inflazione, potrebbe concretizzarsi già nel 2015 in manovre consistenti: perché non sospenderlo, almeno per un anno, in attesa che tutta l’economia europea, di cui l’Italia è parte integrante e fondamentale, si sarà ripresa? Roma, in cambio di queste aperture deve assicurare il percorso riformatore, senza però pagare cambiali in bianco che rischiano di strangolare un Paese, se non addirittura un intero Continente.



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