Martedì 9 settembre, un’esplosione ha squarciato un edificio di Idlib (nord-ovest della Siria). Ci sono molte speculazioni attorno ai motivi dell’esplosione, ma quello che è chiaro è il risultato: i vertici del gruppo ribelle Ahrar al-Sham sono rimasti sotto le macerie. A cominciare dal leader, Hassan Abboud, almeno una trentina dei massimi quadri dirigenti – con incarichi anche nel Fronte Islamico (IF) – sono morti.
I fatti (per quel che si sa)
Sulla vicenda, come detto, sono state fatti già svariati ragionamenti, sebbene ancora sia presto per ricostruzioni concrete, proviamo a mettere insieme i vari tasselli finora noti.
Innanzitutto, sembra che la riunione dei vertici del gruppo, fosse organizzata per studiare un’adeguata strategia di attacco allo Stato Islamico: il gruppo del Califfo Baghdadi, pur condividendo la posizione anti-Assad nella Guerra civile siriana, è nemico di Ahrar al-Sham e del raggruppamento del Fronte Islamico – un insieme di 7 gruppi ribelli, a cui Ahrar contribuisce con 20 mila combattenti e di cui Abboud era responsabile dell’Ufficio politico.
Per tale ragione si è da subito pensato ad un attentato organizzato dagli uomini dell’IS – anche se poi sono girate informazioni in merito a un evento accidentale, avvenuto durante la fabbricazione di ordigni nella stanza contigua a quella dove si svolgeva il meeting.
Sulle modalità ci sono altrettanti dubbi: da subito si è pensato ad un veicolo esplosivo, ipotesi poi corretta dall’idea del kamikaze “a piedi”, probabilmente infiltrato tra i leader del Fronte Islamico; contemporaneamente si sono cominciate a fare strada anche congetture su un attacco chimico.
Quest’ultima possibilità gira intorno alle prime ispezioni sui corpi delle vittime, quasi tutti intatti e senza segni evidenti di ferite (mortali o non) da detonazione. Per altro il summit si svolgeva in un luogo protetto, una sorta di bunker soprannominato “Base Zero”, senza bocche di luce. Per questo può reggere sia l’ipotesi dell’attacco chimico che quella dell’infiltrato (meno quella dell’autobomba). La concentrazione dei fumi dell’esplosione potrebbe essere stata favorita nella stanza senza prese d’aria, anche se per questo non era necessario l’uso di composti particolari, ma bastavano i normali prodotti di combustioni conseguenti alla detonazione.
Inoltre, secondo testimoni di cui ha raccontato Daniele Raineri del Foglio su Twitter, sembra che ci siano state due esplosioni: la prima più debole, mentre la seconda più potente. Chi era sul posto crede che la prima sia da riferire al kamikaze, mentre quella successiva sarebbe legata al gran numero di armi e esplosivi stoccati nelle stanze del bunker sotterraneo.
Tra le varie ipotesi, comunque, quella che via via sta ricevendo più crediti attendibili è l’attacco aereo da parte del governo – che avrebbe raccolto le informazioni sul summit dai mukhbarat sul posto, oppure sarebbe finito una sorta di serendipity. Il deposito d’armamenti vicino a Base Zero, colpito dai missili dei velivoli di Assad, avrebbe prodotto un’intensa cortina di fumo, che infiltrata tra le mura serrate del bunker, avrebbe provocato la morte per asfissia dei presenti.
Chi sono le vittime
Nella breve dichiarazione rilasciata da l Fronte Islamico si leggono tutti i nomi dei principali leader rimasti uccisi. Oltre allo studioso, ideologo, fondatore ed Emiro del gruppo Ahrar al-Sham Abboud, ci sono quello del comandante militare Abu Talha al-Ghab, Abu Abd al-Malik (capo della Consiglio della Sharia del Fronte islamico), Abu Ayman Ram Hamdan (capo della pianificazione militare di Ahrar al-Sham), Abu Sariya al-Shami (terzo nella catena di comando di Ahrar e membro del consiglio supremo dell’IF), e poi Abul-Zubeir al-Hamawi che ha guidato la principale fazione Ahrar al-Sham a Hama, la brigata Iman.
Secondo alcuni analisti, in tutto i leader (di primo e secondo livello) rimasti uccisi sarebbero una cinquantina.
Non è la prima volta che vengono attaccate figure di spicco di Ahrar al-Sham: a febbraio tre kamikaze dell’allora Isis, assassinarono un cofondatore del gruppo, Abu Khaled Suri, già operativo di alto livello nell’universo qaedista ai tempi di Bin Laden.
Oggi, mercoledì, in uno statement è stato comunicata l’immediata sostituzione di Abboud con Hashem al-Sheikh (Abu Jabbar), nominato nuovo capo di Ahrar al-Sham.
Perché è importante Ahrar al-Sham
Il gruppo fin qui guidato da Hassan Abboud, è stato uno dei primi movimenti combattenti ad emergere in Siria, e finora era visto come uno dei più organizzati. È stato fondato nel maggio-giugno del 2011 da reduci della prigione di Sednaya di Damasco (prigionieri politici del regime ed ex veterani della guerra irachena). Da subito si è improntato su una rigida ideologia salafita, con il fine di instaurare una teocrazia sunnita nel territorio siriano.
Il sostentamento non è mai mancato, assicurato fin dall’inizio da chierici del Golfo come Hajjaj al-Ajami (come riporta il Wall Street Journal), molti dei quali collegati al partito Hizb al-Umma kuwaitiano. Ma i soldi sono arrivati anche dal Qatar e da elementi privati sauditi.
Nel corso degli anni Ahrar si è strutturato, alleandosi in modo pragmatico a tutti i gruppi combattenti, compreso l’FSA e la qaedista al-Nusra – ma ha sempre voluto mantenere la propria indipendenza, perseverando nell’obiettivo tutto locale, di sovvertire il governo di Assad.
Il ruolo di Ahrar al-Sham nella creazione del potente esercito combattente del Fronte Islamico è stato fondamentale. Il gruppo rappresenta, per certi versi, l’anello mancante tra il salafismo-jihadista e le posizioni nazionaliste più moderate, ed è stato una componente fondamentale nella costruzione ideologica dell’opposizione siriana. Per questo, il “danno” conseguente all’attentato rischia di essere enorme – per questo, la risposta alla “decapitazione” (stavolta figurata) del leader, è stata prontissima.
Un colpo micidiale in un momento cruciale
Quello che è successo martedì, è stato un colpo micidiale al conflitto e alla lotta al Califfato: ovvio che nell’immediato ci guadagni Assad, che perde un leader nemico capace e carismatico (e con lui il resto dei dirigenti di un importantissimo gruppo ribelle); altrettanto ovvio che ci guadagni lo Stato Islamico, che mette fuori gioco – per il momento – una fazione rivale di primo livello.
Dai primi mesi del 2014, in risposta all’estremismo dell’Isis, la linea di Abboud aveva portato il gruppo ad avvicinarsi – senza rinunciare formalmente alle posizioni salafite – a politiche più moderate, a cominciare dall’apertura alle minoranze religiose e all’alleanza con gruppi come il Revolutionary Command Council (entità “sposorizzata” dal Golfo e dall’Occidente).
Lo sventramento di Ahrar al-Sham rischia dunque di portarsi dietro ripercussioni su tutto l’universo delle opposizioni. Con il Fronte Islamico che non sta riportando da tempo successi, l’assenza della guida politica di Abboud può rischiare di scollare la coalizione. Il rischio, oltre quello di perdere un importante elemento nel contrasto all’IS – anche se non ufficiale – e ad Assad, è che unità interne all’IF finiscano per essere attratte dalla narrativa del Califfato, rimpinguandone i ranghi.
La figura rispettata di Hassan Abboud finora era stata la principale delle barriera, per impedire ai giovani del Fronte Islamico – che rappresenta un bacino di 50 mila combattenti – di unirsi a questi gruppi estremisti.
Tuttavia se il Fronte Islamico dovesse barcollare fino allo scioglimento, potrebbe rappresentare anche una possibilità per le forze moderate. L’IF è comunque una formazione islamista, ma è possibile che al suo interno molti combattenti preferiscano aderire a posizioni meno radicali – se la leadership in esilio sarà brava a cooptarli. Componenti come Jaish al-Islam, Suqor al-Sham, e Liwa al-Tawhid sono già qualche settimana che ondeggiano verso il campo moderato.