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Articolo 18 e non solo, il centrodestra non si faccia ingannare da Renzi

Il difficile scontro interno alla cultura di centrosinistra sull’argomento lavoro induce, al di là delle tante disquisizioni tecniche, a riflettere sull’offerta politica che viene messa a disposizione dei cittadini italiani. Una riflessione questa che acquisisce un suo significato specifico perché siamo apparentemente lontani ancora dalla campagna elettorale per le amministrative e non in vista di una crisi imminente della legislatura.

Il popolo di centrosinistra attualmente si raccoglie attorno al PD e si riconosce, malgrado i molti mal di pancia, nella leadership di Matteo Renzi. Certamente, come sta emergendo sempre più in queste ultime ore, la linea del presidente del Consiglio vuole scaricarsi dei tabù che dominano la sua base piu retrograda, specialmente in materie che sono costitutive della propria personale forza elettorale moderata. Il caso del lavoro è, in questo contesto di analisi, particolarmente emblematico.

Maurizio Sacconi, in un precedente governo di centrodestra, si sforzò di attuare una riforma in larga parte simile a quella che oggi il nuovo centrosinistra rottamatore vorrebbe perseguire. E non vi riuscì allora, in qualità di ministro del Lavoro, per le stesse ragioni che adesso stanno contrastando l’esecutivo in carica. Mi riferisco, ovviamente, alle pressioni sindacali. La differenza è che però le odierne pretese di Camusso e Landini sono molto più esigenti, avendo davanti un potere che in larga parte è rappresentativo dei medesimi riferimenti politici, sebbene, però, logicamente non degli stessi interessi economici.

Quello che merita attenzione, tuttavia, non è il ripresentarsi continuo del nodo sull’articolo 18, quale simbolo del mantenimento o della soppressione di diritti inalienabili, o così ritenuti, per i lavoratori, ma il fatto che la debolezza della volontà riformatrice di Renzi riposa tutta nella tipologia di approccio culturale che lo ispira.

Il problema, tradotto in parole povere, non è tanto se il PD accetti o non accetti una politica liberal. Il problema non è neanche se un modo di articolare le riforme del lavoro da parte del premier possa essere compatibile con il suo ruolo guida del maggiore azionista continentale del partito socialista europeo. Queste cose sono rilevanti ma non decisive. Il punto è che il centrosinistra a Bruxelles, e in questo caso stranamente l’Italia non rappresenta un’originalità, non si distingue dal Partito Popolare per una concezione meno liberale rispetto a quest’ultima, ma perché condivide una terapia individualista alla crisi della produttività che poco o per nulla guarda al bene materiale dei popoli.

In fin dei conti, sia che si salvaguardino gli interessi della classe lavoratrice, la quale ovviamente sindacalizza e difende la propria posizione favorevole alla rigidità dei diritti, e sia che si voglia liberalizzare il mercato, rendendo più snello assumere e licenziare, attribuendo maggiori diritti alla classe imprenditoriale, il centrosinistra è arroccato su un criterio di scomposizione della società molto lontano dai rimedi veramente necessari al bene comune.

Che cosa c’è, infatti, di più disorganico che voler costringere l’intero mercato del lavoro ad interessi collettivi di una classe? E che cosa c’è di più individualista di volergli contrapporre gli interessi di un’altra classe?

In realtà, il superamento del gap di produttività, di consumi e di disoccupazione può ottenersi soltanto ripartendo dalla salvaguardia comunitaria dell’intera società, vale a dire recuperando le radici autentiche dei popoli e delle nazioni. Soltanto, infatti, quando il ‘noi’ comunitario è un’entità difesa e promossa nella sua interezza dalla politica di governo, allora è anche possibile uscire tutti insieme da questo immobilizzante ristagno economico.

La centralità e superiorità del tutto sugli interessi delle parti, in effetti, è quanto separa sempre un modello politico conservatore e popolare da uno liberal progressista. Quest’ultimo nelle sue varianti sociali o mercantili finisce sempre per creare un contrasto tra individualità collettive parziali che alla fine non producono altro che l’acuirsi della crisi in atto.

Oggi si parla tanto in Italia di un’assenza del centrodestra, di un rinnovamento dell’area moderata. Bene. Ma il valore fondante del centrodestra, vale a dire ciò che lo differenzia dal centrosinistra, non è l’idea di democrazia, non è l’adesione ad un’impostazione liberale e neanche il sostegno ad una valorizzazione parziale o totale della società. Il centrodestra deve articolare la propria identità attorno alla concreta realtà comunitaria, proponendosi come una parte politica che rappresenti il soggetto nazionale come un tutto, superiore ai frammentari gruppi di potere che si sclerotizzano in se stessi in modo conflittuale.

Perché comunque, che vinca Renzi o che vinca la Camusso, cioè che la tendenza sia più liberal o più social, la sostanza valoriale che guida il centrosinistra è sempre una precisa concezione atomista dei rapporti sociali, la quale per ciò stesso è anti popolare, sacrificando sull’altare delle contrattazioni presenti il vivo e reale futuro del Paese.

Quando, insomma, il centrodestra riuscirà ad essere rappresentazione cogente dell’intera comunità nazionale, concepita in un contesto aperto, ma circoscritta come soggetto definito, allora nascerà automaticamente un’area politica non solo capace di proposte sensate e condivise, ma crescente in numero di voti. Laddove invece il centrodestra punta soltanto ad una forma frammentata e diversa d’individualismo, subalterno alla visione collettiva del centrosinistra, l’area popolare resta senza consensi o li regala.

In un fase, oltretutto, in cui Renzi gioca ad essere calamita di suffragi moderati, portandoli nell’alveo di un progetto relativista sul piano etico (vedi le coppie di fatto) e selettivo nei contributi (vedi la scuola a danno della pubblica sicurezza), è quanto mai essenziale che il centrodestra non cada nella trappola di teorizzare quello che poi il PD esegue poco e male.

Il centrodestra riparta, in sintesi, dall’idea dell’Italia come comunità popolare che ha elementi, caratteristiche e stili di vita condivisi e permanenti, e si faccia portatore di questa istanza generale a livello internazionale, ed ecco che allora le contraddizioni del renzismo emergeranno, con la stessa forza con cui scemeranno le pretese unilaterali della CGIL, e si articolerà lentamente la base sociale per una futura alternativa popolare e conservatrice alla socialdemocrazia.

In Italia il centrosinistra è maggioranza, in definitiva, unicamente perché manca una chiara e omogenea proposta popolare, la quale faccia proprie le istanze istintuali ed emotive della destra, portandole nell’alveo di una cultura democratica, razionale e comunitaria, eticamente attenta all’identità umana dei cittadini e potenzialmente in condizione di poter aggregare ed unificare interessi provvisoriamente estranei dalla politica pubblica attiva.


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