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Ecco perché urge una banca per le Pmi

Energia Pmi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il problema dei finanziamenti a fondo perduto della Ue, per le Piccole e Medie Imprese, è che sono finalizzati a temi, per così dire, “di moda”: l’imprenditoria femminile, le imprese turistiche, che peraltro ne hanno bisogno come il pane, di finanziamenti, e in tutta Italia, l’efficienza energetica, la Ricerca e Innovazione.

Tutto bene, naturalmente, ma non tutte le problematiche delle Pmi si riducono a questi pur importanti criteri.

Le Pmi che vanno avanti e espandono i loro mercati, anche all’estero, sono anche i produttori di “sempreverdi” come l’alimentare di qualità, la meccanica fine ma inevitabilmente stabile, come certo artigianato vetrario o dell’abbigliamento, oppure dei prodotti per l’igiene personale, tutti settori dove la “ricerca e innovazione” è irrilevante o comunque non costante nel processo produttivo.

Nel 2013, peraltro, l’export alimentare italiano ha toccato il suo picco massimo, raggiungendo i 27,4 miliardi di Euro, ma solo il 12% delle imprese del cibo e delle bevande del nostro Paese riesce ad esportare. Ovvero meno di 6500 aziende sulle 54.000 che formano il comparto Food&Beverage riesce a esportare.

Il Tessile-Abbigliamento dovrebbe arrivare, alla fine di quest’anno, a totalizzare 52,5 miliardi di fatturato, con una occupazione stabilizzata.

Ecco, abbiamo a che fare, nel nostro export di punta, con Piccole e Medie Imprese la cui concentrazione di Ricerca & Sviluppo è tutta o quasi nella assoluta qualità dei prodotti, che è ancor più spesso il mantenimento, con le dovute novità, delle lavorazioni tradizionali.

D’altra parte, la crisi morde davvero, anche in un comparto come quello delle Pmi, in cui c’è la risorsa del lavoro familiare, del rapporto spesso amichevole col credito, della capacità di modellarsi elasticamente secondo le esigenze del mercato finale.

Nel 2013, comunque, ci sono stati circa 10.000 fallimenti nell’area delle Pmi e delle microimprese, ed è infatti questo comparto che segna ancora il passo, con un 64% del totale imprese che risulta come “ditta individuale” ma che concorrono per il 76% al totale delle imprese cessate.

La crisi delle Pmi ha ragioni che abbiamo già qui notato, ma che vale la pena ripetere analiticamente: vi è una forte dipendenza dalle banche, che però oggi hanno criteri universali diversi (Basilea II) che vanno bene per le grandi imprese e le società di capitali ma che penalizzano, con le loro sciocche procedure unificate, le Pmi che hanno bisogno del vecchio direttore di filiale che gli “prende la febbre” con una sola occhiata e magari sa rischiare insieme al cliente quando è il momento giusto, senza scomodare gli algoritmi prefissati del computer centrale che calcola i fidi massimi.

Un altro problema colossale è la logistica, il cui costo è in media dell’11% sul prezzo finale del prodotto. Troppo, decisamente.

Non ci si deve quindi meravigliare se, con la lunga crisi dalla quale non siamo certo ancora usciti, ben 2,1 milioni di imprese medie e piccole hanno cessato le attività, mentre le facilitazioni tradizionali del vecchio sistema “dei distretti”, che nel nostro Paese sono oltre cento, ormai non ci sono più. I forti sono diventati grandi, e i piccoli o hanno chiuso o si sono dovuti adattare ad un mercato più ristretto.

E però non bisogna dimentica che le nostre Pmi sono leader nei 1500 prodotti in cui riusciamo a posizionarci tra i primi cinque produttori al mondo, e tutte le Pmi hanno una quota di fatturato generata all’estero che oscilla tra il 49% e il 51%.

Uno dei problemi, e non siamo certo noi i primi a dirlo, è la semplificazione del rapporto tra impresa e fisco: l’imprenditore Pmi italiano è obbligato a 15 pagamenti l’anno, a fronte dei 12 della media Ocse, paga tasse sui profitti del 20,3% in media (nell’Ocse è il 16,1%) ma paga soprattutto tasse e contributi doppi rispetto alla media Ocse, 43,4% rispetto alla media suddetta del 23,1%.

Una legislazione punitiva dell’impresa, una vecchia tradizione ottocentesca alla quale si è sovrapposto il populismo estremista degli anni ’70.

Si dovrà cambiare, e per forza: invece di aspettare i fondi Ue, sarebbe necessario creare un Codice delle Piccole e Medie Imprese, con poche norme, ancor meno tasse e contributi, e una serie di detrazioni fiscali per chi fa esportazione.

Allargare poi, con criteri preferenziali, le garanzie Sace per le Pmi che esportano, e poi creare una Banca per la Piccola e Media Impresa.

Buona peraltro l’idea, già venuta fuori quest’anno, dell’agenzia di rating per le Piccole e Medie Imprese, ma occorre andare ben oltre i 5 miliardi che sono stati erogati dal sistema bancario italiano, quest’anno, alle Pmi.

Troppo pochi per farle decollare, e certamente distribuiti in un modo che premierà scarsamente il merito produttivo, sottolineando naturalmente il merito di credito.

Non sarebbe male quindi pensare ad una Banca Pmi, con sedi diffuse nelle aree di maggiore presenza della impresa molecolare, i vecchi e i nuovi distretti, magari con degli “sportelli telematici” tramite i quali si possa parlare con un dirigente di filiale, tramite un sito con Login certificato, e trattare i documenti e le analisi di mercato, oggi poco studiate dai con feritori del credito bancario, con il dovuto rapporto personale, tramite skype e il sistema telematico.

La Banca potrebbe essere partecipata delle Banche Nazionali, che spesso difettano nel gestire il mercato del credito alle Pmi, dall’associazione delle Banche locali, che potrebbero con questo sistema ampliare la loro clientela fuori dalla loro area tradizionale di operatività, e da alcune Banche straniere, magari proprio di quei Paesi che maggiormente acquistano prodotti Pmi italiani.

La struttura bancaria potrebbe poi gestire unitariamente tutto il settore dei Fondi Ue, per poi direzionarli nelle imprese specifiche riferite nei bandi europei, con un ulteriore effetto di capitalizzazione del nuovo istituto creditizio.

E poi perché, in alcuni casi specifici, non pensare ad un credito a medio e lungo termine per alcune delle Pmi che manifestano questo bisogno, in un a fase di espansione dei loro prodotti, in un momento di modifica tecnologica radicale delle loro fabbriche, nelle more di una espansione all’estero con nuove filiali?

Quando Mediobanca fu fondata, da Mattioli e Cuccia, all’inizio del secondo dopoguerra, si trattava di rifinanziare le grandi imprese nazionali, distrutte dalla guerra e però capaci di riprendersi i loro mercati interni e dell’export, e spesso di superare i livelli di anteguerra.

Bene, in Italia oggi le Grandi Imprese sono molte di meno di allora, la formula industriale nazionale è del tutto cambiata, e spesso questo fatto è estraneo alla mente del Legislatore, e allora perché non fare mediocredito a lungo e medio termine per le uniche aziende che abbiamo oggi come italiani, le Pmi, e che spesso sono già concupite dagli investitori esteri?

Nel 2013 ci sono stati 23 accordi che hanno visto Pmi italiane acquistate dai tedeschi, e tra il 2008 e il 2012 sono state 437 le imprese italiane, in gran parte Pmi, acquistate da capitali stranieri, in particolare gli Usa, la Francia, ed è ovvio che questo processo, che è ancora in corso, creerà Pmi italiane che si adatteranno forzosamente ai cicli commerciali e finanziari esteri, che sono spesso in controtendenza con i nostri.

Non ce lo possiamo permettere di svendere il nostro rimanente plafond industriale ai nostri concorrenti globali o alle imprese dei nostri mercati di riferimento. Urge una Banca delle Piccole e Medie Imprese.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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