Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Il lavoro italiano quasi non esiste più. Siccome poi, a parte alcuni settori specifici (la moda, l’artigianato di qualità, l’agrifood alto di gamma) produciamo beni e servizi che vengono prodotti o forniti anche da altri, e a prezzo, più basso, il risultato è molto semplice: si riduce la manodopera per abbassare il costo del lavoro ai livelli dei nostri concorrenti globali, oppure si riduce il plafond industriale del nostro Paese.
In altri termini, se le cose continuano ad andare come oggi, il costo del lavoro, e quindi il monte salari e le retribuzioni medie tenderanno al limite del salario dei nostri concorrenti industriali, che oggi sono i Paesi di recente modernizzazione e apertura al mercato-mondo: l’area balcanica, l’Est europeo immesso nella UE per fare un dispetto alla Federazione Russa, o addirittura l’India e la Cina.
E’ duro dirlo, ma è così. Tra poco tempo, il meraviglioso quadro di Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, sarà per noi incomprensibile. I “lavoratori”? Cosa sono? Ci chiederanno i nostri nipotini.
Ma andiamo ai dati, che ci chiariscono tutto. Secondo l’ISTAT, il mercato del lavoro italiano si è ridotto, dal 2008 al 2013, del 2,6% e il numero degli occupati si è ridotto di 5,9 milioni di unità in tutta l’UE, mentre l’area euro perde più occupati del resto della UE: -3,5% rispetto al medio 2,6% dell’area UE non-euro.
Ecco cosa succede a mettere in circolo una moneta artificialmente alta, irriconoscibile per i mercati esteri che non la sanno leggere rispetto ai bilanci nazionali, ai singoli sistemi fiscali, al diverso valore esterno della moneta unica europea per ogni singolo Paese dell’area Euro.
In Italia, comunque, l’occupazione è diminuita, bel 2013, di 984.000 unità rispetto al 2008.
Nel solo 2013 si sono persi in Italia 478.000 occupati, il che elimina alla radice gli effetti del mini-boom del 2011, che tutta l’area Euro ha recepito, sia pure con effetti molto diversi tra Germania e area meridionale della moneta unica.
Le ragioni? Per un 35% l’eccesso di tasse sul lavoro, che pone rapidamente fuori mercato il lavoro italiano rispetto alla concorrenza dei newcomers dell’Est europeo.
Un altro 40% di arretratezza specifica sulla questione occupazionale riguarda la arretratezza tecnologica di molte delle nostre imprese medio-grandi.
Diciamolo chiaramente, senza per questo essere iscritti tra gli intellettuali dell’estrema sinistra: la classe imprenditoriale più recente ha un’attitudine a costituirsi in Rendita, e privilegia gli investimenti improduttivi e di status sociale a quelli per l’innovazione di prodotto e di processo.
Sembra qui di rileggere il vecchio e ancora insuperato testo di Thorstein Veblen su La Classe agiata della fine del XIX secolo, o ancora meglio il più recente saggio vebleniano sulla Proprietà Assenteista.
Un altro 25% della crisi occupazionale strutturale italiana è da attribuirsi al sistema della scuola e della formazione.
Basta con il mito del “dottore”! I giovani, se non mostrano subito particolari doti, devono andare a lavorare in una sartoria, da un calzolaio, nei campi, negli Hotel o nelle fabbriche.
E basta ancora con le scuole professionali tradizionali, che sfornano geometri o ragionieri in costante eccesso.
Il lavoro delle mani è il vero lavoro, che noi “intellettuali” dovremmo non solo cessare di snobbare ma, anzi, tentare di imitare per l’attenzione ai particolari, la fatica costante, l’attenzione alla realtà ovvero al mercato.
D’altra parte, fu l’antropologo Leroi-Gourhan ci ha dimostrato che è proprio dalla attività manuale che, nel neolitico, è iniziato il processo di espansione biologica e culturale della mente e del cervello umano.
Eppure, ritorniamo ai dati, in Italia il calo occupazionale è quasi solamente maschile. E infatti l’occupazione tra gli uomini si è ridotta, sempre nel solo 2013 di ben 128.000 elementi.
Se l’occupazione femminile italiana è sempre molto bassa (il 46,5% delle donne lavora) vale, per il miglior risultato dell’occupazione delle donne nel nostro Paese il contributo delle donne straniere, che sono aumentate di 359.000 elementi tra il 2008 e il 2013, che hanno di fatto reintegrato le lavoratrici italiane espulse per un qualsiasi motivo dal sistema produttivo, e la crescita relativa delle donne occupate con 50 anni e più.
I giovani stanno peggio di tutti, nel nostro Paese. L’occupazione tra i 14 e i 34 anni cala, in Italia, sempre nel periodo 2008-2013, di 10,2 punti percentuali, il che fa il 40,2% di tasso di disoccupazione tra i giovani.
Siccome il Secondo Principio della Termodinamica rende irreversibile il tempo, se diminuiscono gli occupati così giovani, a maggior ragione calano di numero quelli “maturi”, dato che non c’è più il ricambio tra le generazioni dei lavoratori.
O meglio, il futuro lavoratore giovane del nostro operaio che va in pensione sarà sì giovane, ma filippino, vietnamita, bulgaro o maghrebino, e poco importa se produrrà nelle nostre imprese nel suo paese o da noi in Italia, il processo strutturale di desertificazione industriale italiana procederà comunque.
E, per il nostro Paese sarà davvero la fine. Senza il lavoro, finisce una Civiltà e una Storia.
Non bastano gli archeologi, occorrono gli operai che costruirono la Domus Aurea o il Colosseo, la teoria non basta mai.
Viene in mente Bertolt Brecht, quando ricorda in una sua poesia che Ulisse riuscì nelle sue azioni solo perché c’era chi stava ai remi con immensa fatica.
Calano di meno i laureati occupati. La flessione dei posti di lavoro disponibili colpisce anche ci esce dalle Università, e tra il 2008 e lo scorso anno l’occupazione dei laureati è passata dal 78,5% al 75,7% del 2013.
Tra i diplomati l’occupazione è minore, e arriva nello scorso anno al 62,6%, ma sia i diplomati che i laureati sono sottoposti al fenomeno detto sovra istruzione, dato che tutti o quasi tutti accettano, per entrare nel mondo del lavoro, una mansione palesemente inferiore rispetto al livello di qualificazione raggiunto negli studi.
E gli stranieri, di cui molto si parla ma raramente si citano i dati sulla loro occupazione? Sono occupati al 58,1% del totale degli immigrati, nel 2013, il che è un dato fortemente negativo perché, a parte i “ricongiungimenti familiari”, chi viene in Italia si presume che lo faccia per lavorare.
Un pericolo costante è quello che, senza tutele specifiche, si ricostruisca con la manodopera immigrata il vecchio “esercito industriale di riserva” di marxiana memoria.
In altri termini, occorre tutelare il lavoro degli stranieri come quello dei cittadini italiani, per evitare che le imprese, assumendo ad un costo del lavoro ancora più basso della media manodopera “esterna”, perseguano quel progetto di desertificazione industriale in corso, che ci porterà alla fine di quella fase che è in iniziata con le Repubbliche Marinare ed è continuata attraverso l’elettrificazione di Ettore Conti, la grande distribuzione dei Fratelli Bocconi per finire con quel capolavoro di politica industriale che fu l’IRI, di cui dovremo presto ripensare struttura e funzioni per far fare allo Stato, con un management moderno e privo della manomorta politica, quella grande politica industriale globale che le imprese private non sanno più fare o proiettano all’estero, come è avvenuto per l’ex-monopolista dell’automobile.
La crisi del lavoro degli stranieri è comunque segno che “l’Italia è piena”, e dovremo rivedere le politiche di accettazione di popolazione che arriva sulle nostre coste o ai nostri confini di terra.
Chi viene in Italia dal Maghreb o dalla Bulgaria non è addestrato, da subito, alle lavorazioni più fini, che sono a più alto valore aggiunto per prodotto, e può fare, almeno all’inizio, quello stesso lavoro che si può trovare anche nei loro Paesi d’origine, che peraltro esportano manodopera per rendere ottima la loro formula produttiva e per togliersi dai piedi una buona parte di “masse pericolose”.
Ma torniamo al lavoro italiano. Diminuiscono gli operai e i tecnici, i “quadri” della tradizione gramsciana, ma anche i dirigenti e gli imprenditori.
Gli operai sono -15,1%, i dirigenti e gli imprenditori diminuiscono fino al -42,0%, e i tecnici sono il 9,6% in meno.
Ovvero: finisce in Italia il “sistema di fabbrica”, senza che si sappia ancora cosa mettere al suo posto.
Le lavorazioni a domicilio, come accadeva prima che gli imprenditori manchesteriani applicassero l’economico motore a vapore per le loro strutture, che sostituivano le lavorazioni casalinghe? Non credo proprio, ma qualcosa si dovrà inventare, e comunque è già tardi.
Le attività “non qualificate” invece crescono di 350.000 unità, di cui 319.000 sono stranieri, mentre si riduce l’occupazione a tempo indeterminato e full time.
Ovvero, non si possono più finanziare le pensioni di anzianità e nemmeno ricostruire i capitali per il rinnovo degli impianti. Stiamo morendo come Stato Industriale, quello che sognava il capo dell’AEG Von Rathenau per “superare il socialismo”.
Nel 2013 il lavoro “tradizionale” è calato per arrivare al 74,2% rispetto ad un 77% del 2008.
Ma ritorna a calare anche il lavoro “atipico”, il pannicello caldo con il quale si pensava di risolvere il problema del lavoro, qualche anno fa.
Non è che riducendo il costo unitario del lavoro si aumenta l’occupazione, perché il problema è sì il costo del lavoro, ma soprattutto il costo di produzione: se si abbassa il prezzo unitario della manodopera e rimangono le stesse strutture produttive e i costi elevati della produzione industriale, non c’è compressione dei salari che ci salvi dalla espulsione dai mercati.
Infatti, diminuisce la durata di tutti i contratti ma un quinto degli atipici permane in una situazione di precarietà da oltre cinque anni.
Cosa fare, quindi? Io penso che: 1) si possa creare un Fondo per il Lavoro che incentiva, insieme all’innovazione tecnologica, il passaggio dai contratti atipici a quelli “tradizionali” degli occupati, che sia sostenuto dalle banche, 2) si debba creare quell’”Esercito del lavoro” di cui parlava il liberale Ernesto Rossi all’inizio del secondo dopoguerra, 3) si faccia una politica economica decisamente anticiclica ripensando, intorno alla Cassa Depositi e Prestiti, ad un nuovo Istituto per le Imprese, la “nuova IRI2, che sostituisca l’impresa privata laddove essa è carente o mal gestita, 4) pensare ad una riforma dell’INPS che permetta una assicurazione del lavoro più adatta alle nuo0ve condizioni operaie.
Senza produttività, niente mercato interno. A chi gli chiedeva, scandalizzato, perché concedesse alti salari, Henry Ford I rispondeva “e altrimenti chi le comprerebbe le mie macchine?”.
Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”