Con la decapitazione della guida alpina Hervé Gourdel anche la Francia entra, dopo Usa e Regno Unito, tra i Paesi che hanno pagato un pesante pegno al loro coinvolgimento diretto nella guerra al terrore contro lo Stato Islamico.
Come ha reagito Parigi a questa notizia? Quali i risvolti politici e militari? E quali quelli sociali?
A spiegarlo in una conversazione con Formiche.net è Jean-Pierre Darnis, vice direttore area sicurezza e difesa dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), professore associato all’Università di Nizza e collaboratore del quotidiano Il Foglio sulle vicende francesi.
La decapitazione di Hervé Gourdel è una ritorsione per la partecipazione francese ai raid contro lo Stato Islamico?
È un segnale chiarissimo in questo senso, su questo non c’è dubbio. Gourdel era una guida alpina, quindi estraneo al mondo militare. Un monito anche alla popolazione francese. Inoltre non è casuale che ciò sia avvenuto in una ex colonia di Parigi e che sia stato realizzato da un gruppo di jihadisti algerini. Anche la scelta dei “boia” è meditata.
Qual è stata la reazione dei media e della società francese alla notizia?
Un sentimento di sgomento, lutto e unità nazionale. Sotto questi aspetti la Francia assomiglia molto agli Stati Uniti. È prevalsa la voglia di rispondere a questo attacco. Ieri anche il leader dei comunisti francesi, che come si può immaginare ha un giudizio molto negativo dell’intervento francese in Medio Oriente, ha espresso la propria solidarietà al governo.
Come vive la Francia il suo intervento in questa guerra al terrore? E perché vi partecipa?
In Francia la popolazione ha accolto con molta preoccupazione l’attacco alle minoranze cristiane, essenzialmente perché nel Paese è vivo un sentimento di difesa della libertà a qualunque livello. Ed è paradossale che ciò abbia avuto maggiore risalto in uno Stato piuttosto laico come la Francia piuttosto che in Italia. A parte questo Parigi ha una tradizione interventista – come dimostra la recente operazione in Mali -, che preserva per diversi motivi. Roma ha diminuito molto i suoi investimenti militari. Questo l’ha in un certo senso “declassata”, lasciando alla Francia il ruolo di maggiore provider di sicurezza in Europa (lo è anche in Medio Oriente, con la base negli Emirati Arabi Uniti) e di partner privilegiato degli Stati Uniti nel Mediterraneo. Parigi usa questo potere militare per non essere messa all’angolo economicamente a Bruxelles, dove sanno bene che i conti francesi non sono proprio in ordine, ma glielo perdonano per via di questa sua capacità di garantire difesa e sicurezza.
Crede che questo avvenimento avrà riflessi sulla politica interna francese o sulla pace sociale?
Penso di no. Già da tempo vari imam hanno preso posizioni chiare in merito all’IS, dissociandosi da quel modo radicale di interpretare l’Islam. La gente lo ha apprezzato. Né ci sono riflessi politici. Certo, a margine ci sono delle zone grigie nelle quali si annidano elementi pericolosi, ma sono un numero esiguo che non gode di nessun seguito.
Cosa c’è alla base di fenomeni come i foreign fighters?
In Francia credo siano due i motivi scatenanti. Il primo è economico. Con una crisi molto severa in atto, la società ha difeso il benessere delle sue classi medie, non agevolando la crescita degli stati meno abbienti, composti in larga parte da immigrati. A questo malessere si è sommata una politica dell’immigrazione totalmente errata. A partire dagli anni ’70 si è chiuso a un’immigrazione variegata dettata dalla congiuntura economica – come quella dell’Italia che non guarda alle zone di provenienza -, consentendo invece di ottenere facilmente la cittadinanza tramite matrimonio. Questo ha agevolato un’immigrazione a senso unico, composta da persone di nazionalità che erano già presenti sul territorio, dunque provenienti in larga parte dalle ex colonie. Il risultato è stato la nascita di una controcultura unica, in larga parte a matrice islamica, che ha finito per scontrarsi con quella francese, causando non solo problemi sociali, ma anche un forte squilibrio nel mercato del lavoro.