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Vi spiego come funziona il modello tedesco del lavoro (sognato da Renzi). Parla Angelo Bolaffi

Mille giorni per le riforme che occorrono all’Italia e in cima ai desideri di Palazzo Chigi c’è il modello tedesco sul mercato del lavoro.

Ma in che cosa consiste davvero il modello tedesco del lavoro? La parola ad Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 è stato direttore dell’Istituto di cultura italiana di Berlino.

Quali i punti cardine della riforma tedesca?
Premetto che le parole di Renzi sono state nella direzione di un “modello tedesco”, non che farà la stessa cosa. Comunque la riforma sostanziale tedesca fu introdotta nel 2000 dal governo Schroeder con l’obiettivo di un’agenda 2010. Infatti, prendendo ad esempio ciò che era emerso con il trattato di Lisbona, si puntava a rendere la Germania e l’Europa entità in grado di reagire alla concorrenza globale. Purtroppo le cose sono andate in tutt’altra direzione.

In quel momento la Germania mutò il proprio welfare in toto, dunque, e come?
Trasformando il proprio modello di relazioni industriali, che di fatto è molto diverso da quello italiano e da quello francese. E’ consensuale e basato sulla co-gestione, ovvero l’idea che esiste un patto sinergico tra sindacati e imprenditori.

Ma dopo l’approvazione di quella manovra Schroeder pagò fio alle urne…
Era a capo di un governo rosso-verde che seminò ciò che la Merkel dopo raccolse. Chi introdusse queste riforme, la Spd, fu poi penalizzata anche dalla spaccatura a sinistra che portò alla nascita del Linke. La sconfitta di Schroeder alle elezioni del 2005 è il punto fondamentale per comprendere il coraggio politico di quelle scelte, che furono dirette verso un nuovo Stato sociale e verso nuove regole che accompagnavano il sostegno della disoccupazione.

Con quale direttrice di marcia?
Dimezzando quella che era stata un’elargizione generosa anche per coloro che rifiutavano una proposta di lavoro, introducendo due principi. Il primo che un disoccupato non poteva dire di no ad una seconda offerta occupazionale, pena un decrescente sussidio di disoccupazione. Il secondo corre sui binari della consapevolezza che gli inoccupati devono essere riportati sul mercato del lavoro attraverso un percorso formativo.

Quindi lontano anni luce dal modus italiano della cassa integrazione?
Un altro modo di pensare, alla base del quale vi è la volontà di rimettere il lavoratore senza occupazione nel mercato del lavoro, non semplicemente sostituire lo stipendio con un sussidio. Ad esempio sull’articolo 18 in Germania vi fu un allentamento della cosiddetta difesa dal licenziamento. Il vero patto consiste nel fatto che le imprese non solo erano più libere di licenziare, ma non tendevano a licenziare bensì mettere in mobilità i lavoratori quando il ciclo lo richiedeva. E tentando di non allontanarli dalle imprese, visto che le stesse nel periodo precedente avevano investito proprio nei lavoratori. Questi ultimi rappresentano un valore.

Che cosa prevedeva inoltre il patto?
Il patto prevedeva che l’impresa li avrebbe riassunti quando il ciclo lo avesse reso possibile. Quindi mobilità e non licenziamento, oltre ad una serie di diritti che vennero abbassati come i ticket e i periodi di malattia.

Il passo più significativo per l’Italia sulla scia dell’esempio tedesco crede sia la libertà di licenziare, la contrattazione aziendale o i mini job?
Se l’idea, che ancora oggi vedo circolare sulla stampa italiana, è che la crisi è causata dall’austerità di Berlino e Bruxelles, allora è meglio parlare di altri modelli come quello statunitense, dove la mano pubblica investe e si giunge pian piano alla crescita occupazionale. Considero sbagliata questa tesi, ma se la si volesse sostenere allora l’idea riformatrice del welfare a quel punto non avrebbe alcun senso.

Invece Berlino cosa insegna?
Che le riforme del mercato del lavoro tedesco introdotte da Schroeder si basavano sul principio dell’equilibrio di bilancio, ovvero non aumentando il deficit pubblico. Per cui o si crede che aumentandolo si crea occupazione, o si crede che per avere più occupazione servono riforme in economia e nel welfare.

Nel volume “Ricca Germania-Poveri tedeschi” (edito dalla Bocconi) di Patricia Szarvas si teorizza la crescente diseguaglianza sociale nel Paese. E’ così?
Si tratta di una tesi vecchia. La disuguaglianza nel mondo globale è in crescita costante, per cui l’autrice dovrebbe spiegarci come mai tutti i disoccupati di Francia, Italia, e Grecia scelgono la Germania come nuova meta per godere dei vantaggi dello stato sociale. Certamente c’è stata una compressione salariale e il miracolo tedesco è passato anche per una politica di sacrifici sindacali, temperati dall’accordo del salario minimo.

twitter@FDepalo

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