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Tutti i bluff nell’articolo 18 alla Renzi

“C’è qualcosa dei nuovo oggi nel sole, anzi di antico…”. A pensarci bene nelle svolte più o meno epocali riguardanti il diritto al lavoro emergono sempre, nella linea di condotta dei protagonisti, delle imperturbabili coazioni a ripetere i medesimi errori, sia che si tratti dei vincitori di oggi, già sconfitti ieri; o viceversa.

Nella vicenda dell’articolo 4 emendato – che ha sbloccato il disegno di legge delega Poletti (AS 1428) in Commissione Lavoro del Senato – a battere la grancassa sono gli esponenti della “maggioranza minore” (Ncd, Sc, Popolari) che si attribuiscono il merito di avere chiuso i conti con l’articolo 18 dello Statuto e con la reintegra, la quale, per i nuovi assunti (inclusi quanti cambiano lavoro), resterà unicamente a sanzionare i licenziamenti nulli e discriminatori.

Questa interpretazione denota, per chi scrive, un’eccessiva sicurezza propagandistica, non sorretta dal testo di una norma di delega che rimane – nonostante i passi in avanti compiuti – troppo generica e sibillina (ibis redibis non moriebis in bello) e quindi ambiguamente aperta a tante possibili e differenti soluzioni. Per ora è stabilito, soltanto, che tre materie importanti (regolate in particolare dallo Statuto dei lavoratori, mai nominato nella delega) dovranno essere rivisitate, anche se i principi e i criteri indicati sono molto laschi e cerchiobottisti.

Oltre alle questione del c.d. demansionamento e del controllo a distanza, dovrà sicuramente cambiare anche la disciplina del licenziamento individuale applicabile al “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”: un istituto che, a delega attuata, sarà caratterizzato in ogni caso da un mix modulato di tutele, pure nel caso in cui, tra le sanzioni, non dovesse venir meno, a determinate condizioni, la reintegra. Proprio qui sta il punto: non è affatto pacifico che nel contratto a tempo indeterminato di nuovo conio sia esclusa la tutela reale, che, invece, potrebbe intervenire dopo un certo numero di anni di anzianità di servizio, quando è più difficile la ricollocazione del lavoratore. Potrebbe in proposito essere ampliata la facoltà di scelta del giudice oggi circoscritta al solo caso del licenziamento economico. Sarebbe sicuramente una soluzione pasticciate.

Ma se vogliamo dirci fino in fondo la verità, un legislatore che intenda superare la tutela reale lo dice, non lo lascia intuire. Basterebbe, ad esempio, scrivere: “nel caso del contratto a tempo indeterminato a tutela crescente in relazione all’anzianità di servizio la protezione contro il licenziamento illegittimo è di norma di carattere obbligatorio, ad eccezione delle fattispecie di licenziamento nullo o discriminatorio per il quale il giudice provvede alla reintegra”. Si può anche proseguire oltre in questo modo: “Nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo la legge affida al giudice, in ragione delle circostanze emerse, la facoltà di applicare la tutela obbligatoria o quella reale”.

I miei amici Maurizio Sacconi e Pietro Ichino farebbero bene, quindi, a ricordare che cosa capitò con la legge Fornero. Le forze riformiste (tra di loro anche la Confindustria oggi guardinga in coerenza con la sua linea filo-Cgil) ballarono per mesi intorno al totem dell’art.18 sperando in chissà quale cambiamento (arrivando persino alla richiesta di un decreto legge!); poi alla fine si accorsero che il miracolo non c’era stato, che l’articolo-canaglia era stato appena scalfito e che, in cambio, erano stati messi praticamente fuori legge i contratti atipici di cui alla legge Biagi.

E se avvenisse così anche adesso? Si saranno accorti i nostri “re per una notte” che dal nuovo articolo 4 sono sparite alcune parole-chiave contenute nell’emendamento Ichino: “senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro”? Si parla, invece, di “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali”; nonché di “abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative”. Non si venga a dire che si tratta di chiacchiere prive di significato, perché tutto il provvedimento soffre di genericismo. Se dovessi fare l’avvocato del diavolo, sosterrei che quelle deleghe, rimaste in ombra nel dibattito, potrebbero rimettere in discussione la vera svolta intervenuta, quanto a flessibilità, nel mercato del lavoro, grazie al decreto Poletti: la riforma del contratto a termine. Sarebbe del tutto illogico sostenere che la disciplina del contratto a tempo determinato deve essere resa coerente con quella del contratto a tutele crescenti di nuovo conio?

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