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Il contributo dell’Amx in Libia

Che tipo di missione ha svolto l’Amx in Libia?

L’assetto ha cominciato ad intervenire nella seconda fase della campagna, in estate, con classiche missioni di air interdiction e di ricognizione tattica. Da settembre abbiamo poi cominciato a effettuare missioni di tipo Scar (Strike coordination and reconnaissance, ndr), unitamente ad altri assetti, per acquisire informazioni da trasmettere alla catena di comando e controllo.

Come ha risposto il caccia alle necessità che via via si presentavano?

Molto bene, nonostante l’intervento sia stato effettuato in un momento particolare, quando buona parte dei piloti era già impegnata in Afghanistan e un altro numero si stava addestrando sempre per quel teatro operativo. Fortunatamente l’aereo pochi mesi prima aveva ricevuto un bell’aggiornamento, comprendente l’integrazione del Pod Litening III (di produzione israeliana, ndr). Questa tecnologia, che l’Amx ha ricevuto prima ancora del Tornado, si è rivelata molto efficace, dal momento che ci ha permesso di auto-guidare le bombe a guida laser. Gli aerei hanno mantenuto uno standard di efficienza elevato durante tutta la campagna e particolari problemi non ce ne sono stati, tant’è che abbiamo impiegato tutto l’armamento disponibile, Gbu16 e Gbu Lizard, oltre a bombe a guida Gps e a guida mista.

Quali le Lesson Learned?

Professionalmente parlando la Libia ci ha fatto imparare molto. Abbiamo approfondito la nostra conoscenza nell’impiego dell’armamento. Siamo riusciti ad implementare alcune procedure, subito messe a sistema in Italia, grazie anche alla presenza di piloti Ocu (Operational conversion unit, che ha il compito di addestrare i piloti, ndr) utilizzati per tamponare il personale già impegnato. Abbiamo dato vita a missioni miste che ci hanno dato grande flessibilità, inoltre abbiamo avuto la possibilità di migliorare tutta la parte legata al rifornimento in volo, di giorno e di notte e di validare la catena di comando e controllo. Prima la gran parte delle missioni che ci hanno visto protagonisti erano legate al supporto delle truppe a terra. In Libia no. Lì tutto era legato alla trasmissione dati aerei. Un’esperienza che ci ha permesso capire la nostra capacità di interpretare le situazioni a terra e di mettere in atto eventuali contromisure.

Se dovesse fare un paragone con l’Afghanistan, da dove l’Amx è rientrato prima dell’estate, quali sono le principali differenze con la campagna del 2011?

Innanzitutto la percezione della situazione. In Libia non avevamo nessuno a terra e talvolta era difficile dall’alto capire cosa stava accadendo. Spesso i mezzi civili venivano adattati ad usi militari e quindi si rendeva necessario integrare le nostre informazioni di intelligence con quello che si vedeva in quel momento e se qualcosa non era chiaro chiedevamo supporto ad altri assetti. Capitava infatti di scoprire le cose in diretta e se c’era il rischio di danneggiare qualcosa di non militare innalzavamo il grado di approvazione dell’intervento. Nonostante la maggiore difficoltà il sistema di comando e controllo ha ben funzionato eliminando, di fatto, i danni collaterali. Inoltre, la Libia – diversamente dall’Afghanistan – disponeva fino a settembre inoltrato di una sua capacità contraerea, quindi c’era l’esigenza da parte nostra di approcciare il territorio in modo compatto, con dei pacchetti dedicati di difesa aerea. Il territorio afghano non presenta grandi minacce per un velivolo come il nostro, se non nella fase di atterraggio e decollo, mentre in Libia è stato necessario accomunare più assetti per entrare e uscire dallo spazio aereo in maniera sicura.

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