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Il peso delle lobby mediorientali in USA: l’Arabia Saudita

Che Riad sia un alleato strategico e storico degli Stati Uniti è noto, così come è nota l’ambiguità dei rapporti che caratterizzano il regno e il terrorismo islamico. Molti elementi affiliati all’IS sono sauditi, così come sono molti i giri di denaro che arrivano dalla penisola arabica per finanziare il Califfato.

Le lobby in cui il governo di re Abdullah sta investendo circa due milioni di dollari l’anno, dovranno lavorare su questo “nuovo argomento di ambiguità”, come ci lavorarono già nel post 9/11 – non dimenticarsi che Osama Bin Laden era saudita.

Lo scenario delle relazioni tra Stati Uniti e Arabia, è disegnato in questo momento da una serie di attriti scatenati lo scorso anno dalle politiche americane: prima la decisione di non intervenire in Siria dopo i bombardamenti chimici di Assad, poi la creazione del tavolo di mediazione sul nucleare iraniano. Due questioni che Riad considerava fondamentali (la prima in via indiretta, l’altra direttamente) per limitare l’influenza di Teheran nella regione. «”Linee rosse” americane, che nel tempo sono diventate rosate fino a sbiadire in bianche» le aveva definite sul New York Times Turki al-Faisal, storico direttore dell’intelligence saudita (dal 1979 al 2001) – dimessosi appena dieci giorni prima dell’attentato alle Torri Gemelle.

Ma mentre Washington avviava il dialogo con i mullah e si allontanava da interventi sulla guerra civile siriana (scegliendo vie diplomatiche mediate dalla Russia), Riad manteneva posizioni “relative” sul flusso di ribelli – islamisti o moderati – e sui “privati” che partecipavano e facilitavano “donazioni” nei loro confronti. Da notare, che secondo molti analisti, tra i clienti dei finanziamenti sauditi, ci sarebbe – e c’era di certo – anche il gruppo del Califfo Baghdadi, l’Isis.

Ora l’Arabia (e il Qatar, l’altro paese la cui posizione nei confronti del terrorismo sunnita è da sempre discutibile) ha fatto un passo avanti: in agosto il re Abdullah e in settembre il Gran Mufti Sheikh Abdul-Aziz Al al-Sheikh, hanno condannato le azioni del Califfo e espresso sdegno e distacco per quello che sta succedendo nel territorio siro-iracheno.

C’è una relazione con l’Occidente – capitanato dagli Stati Uniti – da tenere in piedi senza incoerenze e ambiguità. Sul tavolo, oltre i noti affari petroliferi e quelli legati al mondo delle costruzioni, l’accordo record da 60 miliardi di dollari sulla fornitura di apparecchiature militari (aerei, elicotteri, droni) stretto nel 2010 – che ai tempi aveva fatto sussultare Israele, primo tra gli alleati americani nell’area mediorientale, preoccupato del potenziamento della monarchia del Golfo e di potenziali sbilanciamenti geopolitici conseguenti.

Se c’è un aspetto che mette alla luce del sole l’influenza saudita sulla Casa Bianca (e viceversa), è la scelta dei diplomatici spediti a Riad. Tutte figure di primissimo piano, e tutte legate al mondo militare: dal 2013 l’ambasciatore è Joseph Westphal (negli uffici del governo con Carter, Reagan, Clinton, Bush e Obama, appunto), ex chief management office dell’esercito. Prima di lui Obama aveva messo a Riad un altro uomo proveniente dal settore Difesa: James Smith, con una carriera lunghissima nell’Air Force ed ex quadro strategico della Raytheon – azienda missilistica di riferimento mondiale, produttrice della gran parte dei sistemi dell’Iron Dome israeliano e dei noti missili Tomahawck.

Il messaggio che Obama ha intenzione di trasmettere con l’accordo militare e con l’invio di diplomatici provenienti dal settore, è legato alla collaborazione, strategica, nel contenimento degli equilibri di sicurezza nella regione del Golfo. Riad risponde inviando il proprio messaggio di affidabilità – o almeno vorrebbe.

L’Arabia Saudita punta da diverso tempo sulle pubbliche relazioni interne a Capitol Hill: il primo a crederci fu l’allora ambasciatore Bandar bin Sultan (poi passato a capo dell’intelligence saudita, successivamente sostituito pochi mesi fa). Nel 2001 fece investire al suo stato 3,2 milioni di dollari in pr, ingaggiando la società Qorvis Communications; ma dopo l’attentato dell’11 settembre i rapporti con il regno si incrinarono, e la Qorvis nel 2004 scivolò in un’inchiesta dell’FBI per presunte violazioni delle leggi sulle lobby (su una campagna radiofonica): interrogazioni e perquisizioni negli uffici della società a Washington e in Virginia del Nord, senza che venissero mai depositate accuse specifiche – insomma più un controllo e un monitoraggio, che una questione legale.

Qorvis lavora ancora per Riad, affiancata da altre due importanti realtà di lobbying: la Patton Boggs e la Hogan Lovells. Inoltre le relazioni americane dei sauditi sono alimentate dalla compiacenza di vari think tank verso il regno. Su tutti, il Middle East Policy Council (MEPC), una organizzazione 501(c)3 che studia l’impatto delle questioni mediorientali sugli interessi americani – e viceversa. Proprio una donazione del governo saudita (di un milione di dollari da parte del principe Alwaleed bin Talal bin Abdulaziz al-Saud) nel 2007, fece deragliare due anni più tardi la nomina di un ex presidente del MEPC, Charles Freeman (già ambasciatore a Riad dall’89 al ’92), a direttore del National Intelligence Council: sulle passate esternazioni anti-israeliane di Freeman e sui legami con l’Arabia Saudita, si abbatterono le posizioni repubblicane e le pressioni dell’AIPAC.

Molti in America hanno letture critiche sull’intensa attività dei lobbisti pagati da re Abdullah. David Andrew Weinberg senior fellow alla Foundation for Defense of Democracies (think tank vicino alle idee neocon), ha spiegato la necessità saudita di un forte impegno in pr, collegandolo a questione di differenza di valori:«Nei rapporti dell’America con l’Europa, con Israele, con il Giappone, con l’Australia, la Corea del Sud, abbiamo valori comuni, e questi sono estremamente utili per rafforzare la vicinanza; con i sauditi non è così» e questo richiederebbe l’incentivo per la diffusione del “messaggio” di Riad tra le scettiche stanze di Washington.

Tuttavia le agenzie assunte dal governo saudita qualche buon risultato lo stanno portando a casa: a cominciare dal viaggio di Obama in marzo in Arabia Saudita – «un paese amico che è stato e continua ad essere una forza importante per la stabilità politica in Medio Oriente» lo definì il Prez. Ma anche in quell’occasione, 70 membri del Congresso (che per inciso ancora deve rendere operativi tutti gli aiuti militari del pacchetto del 2010) hanno mostrato preoccupazioni nei confronti dei rapporti tra la Casa Bianca e il regno, chiedendo ad Obama di prendere formale posizione in merito alle violazioni dei diritti civili perpetrate dalle autorità saudite nei confronti di ogni genere di minoranza (fossero religiose o politiche moderate) e delle donne.

C’è da dire, comunque, che le posizioni critiche dei legislatori, vengono molto spesso bypassate dall’enorme capacità di spesa di Riad, che con le sue valigie di denaro (e petrodollari) mette in secondo piano il dibattito politico.

Resta comunque che il principale problema sulla collaborazione tra i due paesi, è legato all’ambiguità saudita. L’Arabia ha già a disposizione un buon contingente militare (preparato e tecnologicamente già rifornito dagli Stati Uniti), però non ha mosso i suoi uomini per combattere la crescente minaccia dell’IS – limitandosi, solo ultimamente, a condanne verbali e a fornire (utile, è vero) supporto d’intelligence.

Allora delle due l’una: o il regno sonnecchia per permettere ai sunniti combattenti di infliggere colpi pesanti alle realtà sciite circostanti (Siria e Iraq), fomentando indirettamente e sommessamente la divisione settaria del Medio Oriente; oppure ha riposto completa e passiva speranza nell’America, chiamando lo Zio Sam ad agire per la sicurezza dei propri alleati regionali, senza però muovere un dito in aiuto, per non “sprecare” il proprio arsenale in vista del futuro.

@danemblog

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