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La Repubblica degli strafalcioni su Moro e articolo 18

Per la prima volta da quando ci godiamo insieme, quassù tra le nuvole, il meritato riposo, Aldo Moro mi ha avvicinato e rivolto la parola, perdonandomi anche lui, evidentemente, di essere stato per un po’, in vita, un brigante.

Ma un brigante certamente meno cattivo – deve aver capito – di quelli rossi che a lui  tanti secoli dopo, fra marzo e maggio del 1978, lo sequestrarono e di quelli, anche bianchi, che poi lo lasciarono uccidere, rifiutando i suoi appelli a trattare in qualche modo per salvarlo.

Mi ha avvicinato, Moro, per lamentarsi di un certo Scalfari che su una certa Repubblica “di carta”, intesa evidentemente come giornale e non come Stato, gli attribuisce con una certa ostinazione progetti e cose che non gli sono mai appartenute, o che erano diverse da quelle che aveva o pensava. E gliele attribuisce – mi ha spiegato – in base ad un colloquio che egli ebbe la sfortuna di avere con lui poco prima di essere rapito. E che lui tradusse disinvoltamente in una intervista postuma: di quelle cioè che non si possono materialmente smentire o rettificare.

Ma che cosa ti ha mai fatto dire?, gli ho chiesto. E lui: che avevo fatto un accordo con il Pci del povero Enrico Berlinguer destinato a durare almeno dieci anni e a produrre anche un governo di democristiani e comunisti insieme. Ma che dieci anni d’Egitto. Io mi ero limitato a fare un accordo perché lui continuasse per un po’ ad appoggiare dall’esterno un governo tutto democristiano.

Per un po’ quanto? Gli ho chiesto. E lui: per qualche mese, sino alla fine di quel maledetto anno, quando pensavo di poter e dover essere eletto presidente della Repubblica, alla scadenza ordinari a- da lui anticipata dopo la mia morte – del mandato del povero – anche lui – Giovanni Leone. Una volta al Quirinale, avrei ben saputo organizzare le cose, fuori e dentro il mio partito, per rifare un’alleanza con i socialisti, visto che a guidarli c’era Bettino Craxi, e sfidare poi i comunisti alle elezioni perché si concludessero diversamente da due anni prima, quando le vincemmo tutti e due – io e Berlinguer – ma restando entrambi ben lontani, perché soli, dalla maggioranza dei seggi in  Parlamento. Da qui nacque la necessità di una tregua fra di noi.

Ma non potevi spiegarla meglio, questa cosa, quando eri laggiù? Gli ho chiesto ancora. E lui: lo feci in un’assemblea dei parlamentari del mio partito, in un discorso che fu l’ultimo della mia vita politica. Lì era tutto spiegato bene, sia pure con la prudenza, la cautela, le allusioni del mio stile, e di quelli che mi ascoltavano. Dissi che bisognava aspettare che maturassero le condizioni per poter fare a meno di un accordo parlamentare con il Pci. E mi riferii proprio a ciò che stava accadendo nel partito di Craxi, il povero Craxi, pure lui, che avrebbe pagato caro il tentativo che fece, quasi unico, per tirarmi fuori dalla prigione in cui mi avevano portato i brigatisti rossi.

Terribile, gli ho detto, compiaciuto però del suo apprezzamento per Craxi: un uomo al quale indegnamente sono stato per un po’ paragonato proprio da Scalfari.

Stavamo a questo punto per lasciarci quando Moro mi ha confidato un altro motivo di fastidio e di delusione appena procuratogli sempre da lui, da Scalfari. In particolare, pur con tutta la comprensione per gli scherzi che ad una certa età può fare la memoria, egli era dispiaciuto che Scalfari gli avesse appena attribuito, sempre su quella sua Repubblica “di carta”, la quasi paternità, come presidente del Consiglio, dell’articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori, quello sui licenziamenti, scritto materialmente dal ministro socialista del lavoro Giacomo Brodolini.

A parte il fatto  – mi ha spiegato Moro – che Brodolini, povero pure lui, c’entrò solo in parte perché morì prima che quella legge fosse approvata, alla guida del governo non c’ero io ma Mariano Rumor.

Posso sbagliare, ma mi è parso di capire dal tono della voce e da una smorfia che, se fosse dipeso da lui come presidente del Consiglio, quell’articolo 18 non sarebbe comparso o rimasto in quella legge, neppure con i buoni uffici del suo amico personale e di partito Carlo Donat-Cattin, povero pure lui, subentrato a Brodolini al Ministero del Lavoro prima che lo statuto dei diritti dei lavoratori terminasse il suo cammino parlamentare con l’approvazione definitiva. Posso sbagliare, ripeto, ma questa è l’impressione che ho ricavata. Di sicuri, comunque, restano i pasticci che fa Scalfari laggiù quando scrive di politica, e non solo di vangeli.


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