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Ecco perché all’Occidente manca una vero piano anti-Isis

ReaCT

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il Re dell’Arabia Saudita sull’ISIS di Al Baghdadi afferma che, “se li ignoriamo, quelli del Califfato raggiungeranno l’Europa in un mese e l’America nel mese successivo”, e, ancora, il Re custode dei Luoghi Santi islamici ha chiarito che una inerzia occidentale sarebbe “inaccettabile” di fronte alla gravità del fenomeno.

La notizia delle osservazioni di Re Abdallah fa il giro delle agenzie alla fine dell’agosto scorso, e non è certo da trascurare, vista la figura che le pronunzia e la penetrazione speciale che i Servizi Sauditi hanno all’interno del mondo jihadista.

Ma qual è la vera strategia globale dell’ISIS e in che modo possiamo contrastarla? Non è facile rispondere, anche se la reazione di alcuni Paesi occidentali non si è fatta attendere, anche prima della denuncia del Re saudita.

Gli USA hanno, di fatto, sostenuto l’azione della stessa Arabia Saudita contro la Siria, ritenuta l’”anello debole” del sistema sciita nel Grande Medio Oriente, ma i Sauditi, e i Servizi di Re Abdallah hanno di certo, come ci informano alcune fonti del MI6, il servizio di intelligence militare britannico, aiutato l’ISIS di Al Baghdadi contro il regime filo-iraniano di Bashar El Assad.

Ma i sauditi hanno sostenuto anche Al Nusra, l’altro gruppo di tradizione qaedista, e i mujaheddin che sono arrivati dalla Libia, da tutto il Maghreb, dalla Cecenia e persino dall’Indonesia.

Primo cerchio strategico: la creazione di un fronte sunnita contro il sistema sciita incentrato su Teheran, secondo cerchio, per Riyadh, la internazionalizzazione di questa tensione regionale per utilizzare l’aiuto degli amici occidentali, ossessionati (giustamente) dal nucleare civile-militare iraniano che peraltro è indebolito dall’isolamento di Teheran nel quadrante globale e dalla sua invadenza nelle aree sciite, spesso di minoranza, nei Paesi legati alla tradizione maggioritaria dell’Islam.

Non a caso l’attuale Capo del Governo iraniano ha allentato la pressione di Teheran sulla sua popolazione e ha iniziato una “strategia del sorriso” con gli Occidentali, subito sedotti, da veri materialisti ingenui, dalle occasioni di affari e di nuove, e pericolose e spesso suicide, “delocalizzazioni” industriali.

Il jihad saudita è contro gli sciiti, spesso ritenuti dai predicatori sunniti “peggio degli Ebrei” ma simultaneamente contro il mondo occidentale, che è comunque “impuro” e gestisce ancora solidi rapporti con molti sistemi politici mediorientali.

Ovvero: vi è un jihad preventivo contro l’asse Europa-USA-Israele e un jihad permanente e “della spada” nei confronti degli “apostati” sciiti.

Una doppia minaccia, dato che lo stesso mondo sciita potrebbe rivalersi contro il sistema europeo-americano, e generare un jihad contro i sunniti e gli “infedeli” che sarebbe ancora più pericoloso, date le caratteristiche dell’universo sciita, di quello dei seguaci della “sunna” muhammadica.

Prima un jihad per stabilire chi è egemone nell’universo islamico, poi il secondo e definitivo jihad contro “gli infedeli e gli Ebrei”, per usare le parole di Bin Laden, ovvero contro di noi in Europa e in USA e contro lo Stato di Israele, per annullarlo definitivamente.

Ovvero, ancora, potremmo avere a che fare qui con due jihad, probabilmente simultanee, di diversa struttura strategica, ma entrambe dirette contro di noi all’Ovest, e che riguardano interessi sauditi o sciiti e creano la Paura in Occidente, e la Paura è la prima risorsa di ogni strategia, come diceva Napoleone.

E’ forse questo, tra le righe, il monito di Re Abdallah, Protettore dei due Luoghi Santi islamici.

I jihadisti nel sistema iraqeno sono comunque sostanzialmente sostenuti dall’Arabia Saudita, anche se le loro necessità di founding sono ormai largamente autonome: durante la battaglia per la conquista di Mosul l’ISIS ha acquisito circa 308 milioni di Euro, mentre si calcola che, oggi, i militanti del Califfato di Al Baghdadi posseggano un “tesoro” di oltre due miliardi di Dollari Usa.

I due Stati che finanziano primariamente l’ISIS, lo abbiamo già notato qui, sono senza dubbio l’Arabia Saudita e il Qatar, con Riyadh che si muove per egemonizzare la grande rivolta sunnita, e il Qatar che opera anche attraverso i Fratelli Musulmani. Il Kuwait genera anch’esso un flusso di denaro per il Califfato.

E pensare che il Principe Bandar, il regista dell’operazione a favore dell’ISIS, è stato recentemente messo da parte come capo dei Servizi sauditi, nell’Aprile scorso, e Bandar ha fallito sia nel connettere l’ISIS alla strategia saudita nell’area, sia nel richiamare un impegno militare degli USA nel quadrante iraqeno, che peraltro ormai la popolazione nordamericana vive come un vero e proprio incubo.

Usare gli States come “muro” contro la rivolta sciita, far ritornare l’Iraq sotto la tutela dell’universo sunnita e, quindi, regionalizzare l’Iran prima, con ogni probabilità, di attaccarlo militarmente.

A proposito, il Principe Bandar ha commesso un altro errore, agli occhi dell’attuale classe dirigente saudita: ha sostenuto, in odio ai tradizionali nemici di Riyadh, i Fratelli Musulmani, il golpe di Al Sisi in Egitto.

Gli errori strategici occidentali sono ormai davanti agli occhi di tutti: una certa ingenua (ma molto redditizia) adesione agli interessi sauditi nell’area, che peraltro non sono mai i nostri, che dura fin dalla Prima Guerra del Golfo, nella speranza, del tutto vana, che i Sauditi stringessero i jihadisti in una morsa.

Tutt’altro: il jihad della spada è stata una forma di strategia indiretta saudita e sunnita sempre più rilevante, dopo che la Santa Ingenuità occidentale ha destabilizzato, con le “Primavere Arabe”, il punto debole del sistema mediterraneo, il Maghreb, e ha colpito aree come la Libia, che sarà ormai jihadista o non sarà, e l’asse Tunisia-Egitto, che il jihad della spada e i suoi mentori volevano destabilizzato per sempre, come la Libia, per porre sotto il controllo jihadista-sunnita il Canale di Suez, la vena giugulare dell’Europa Occidentale.

E’ bene ricordarsi, poi, che il testo sulle “rivoluzioni nonviolente” di Gene Sharp, il fondatore della Albert Einstein Institution, in USA, era lettura obbligatoria per i militanti della Fratellanza Musulmana…. la favola bella della democrazia occidentale nel mondo arabo è durata poco, naturalmente, ma ha lasciato il frutto che doveva, secondo la dirigenza sunnita: la viabilità strategica del Maghreb, che ora ospiterà una gran parte del jihad diretto in Europa e capace, comunque, di dirigere, tramite la Paura, le azioni dei governi UE, sempre meno capaci, sia per la loro destabilizzazione interna che per i sempre più stretti vincoli di bilancio, sia un sostegno reale ad Israele che una reale azione antijihadista in Patria e nel Grande Medio Oriente.

C’è anche una cruda argomentazione economica dietro questo quadro sanamente pessimistico di analisi: l’Arabia Saudita, le cui riserve petrolifere e di gas naturale sono Segreto di Stato, ha necessità di contrastare, dentro ma soprattutto fuori l’OPEC, le altre potenze petrolifere emergenti, quali il Venezuela, che ha sorpassato nel 2010 le proven reserves saudite, e la nuova autonomia energetica USA, che si fonda sia sul proprio petrolio che sul nesso tra nuove tecnologie ecologiche e la ancor più nuova tecnica del fracking degli scisti bituminosi. E oggi le riserve USA sono pari a quelle saudite.

Ovvero, cosa c’è di meglio nel mantenere un rapporto amichevole ma spesso strategicamente costrittivo, come accade per i Sauditi con gli USA, e intanto costringere, con la “paura” napoleonica i compratori di petrolio e gas naturale a acquistare solo e unicamente dall’OPEC sunnita?

Il jihad è la mano nascosta che costringe il nostro mondo occidentale a due scelte, una più pericolosa dell’altra: l’abbandono di fatto di Israele al suo destino di Stato costretto alla guerra continua con l’Islam, e la accettazione dell’egemonia sunnita nel Grande Medio Oriente, che sarà suggellata da una guerra finale tra Riyadh e Teheran, sulle ceneri del vecchio Medio Oriente disegnato dopo la Prima Guerra Mondiale.

E dopo, quando i conti tra sunniti e sciiti saranno saldati, e non è affatto certo che le ricche petromonarchie del Golfo possano vincere contro un Iran nucleare, armato fino ai denti e strategicamente autonomo, tutto il Grande Medio Oriente islamista e jihadista compirà la sua lotta per l’egemonia mondiale, utilizzando tutte le tattiche del jihad: quello “della spada”, la lotta militare contro il nemico della fede muhammadica, il jihad permanente, una drôle de guerre indeterminata, e soprattutto il jihad della parola, che implica sia la tecnica psicopolitica di passaggio dalla fede passionale per Allah alla accettazione di una guerra guerreggiata per la Fede, sia soprattutto le tecniche di copertura informativa delle attività islamiste, una copertura che si avvale delle migliori tecniche occidentali, come possiamo notare nei media italiani e internazionali: Islam “religione di pace”, incontri interconfessionali, affermare che i “violenti non sono islamici”, eccetera.

Cosa fare per evitare questo scenario? Riteniamo che si possa pensare ad una serie di contromosse: a) internazionalizzare la crisi e il controllo sul Grande Medio Oriente, creando un Patto efficace con la federazione Russa, che è interessata come noi a quell’area ma non intende più rimanere ferma, e sta operando sia nl mantenere il regime di Bashar el Assad, vecchia bête noire degli USA di Barack Obama, che ormai non hanno più alcuna strategia nell’area salvo inventarsi ogni tanto il “Cattivo” e poi scoprire che ce n’è uno più cattivo ancora, b) riconfermare il sostegno operativo a Israele sia dell’UE che degli USA, dato che Israele non è un impaccio nella gestione di un buon rapporto con l’Islam, ma il vero Guardiano dei nostri interessi strategici (e dei suoi) in tutto il quadrante mediorientale, e male fece l’America persino a bloccare addirittura l’operazione franco-britannico-israeliana a Suez nel 1956, e ricordiamoci che lo Stato Ebraico è l’unica minaccia credibile sia per i sunniti che per gli sciiti, c) destrutturare il sistema OPEC, creando canali di acquisizione degli idrocarburi fra Stato e Stato, anche se ormai il “cartello di Vienna” non è il maggior produttore di petrolio al mondo, e quindi rompere il cerchio tra economie petrodipendenti e radicalismo islamico-jihad, d) rafforzare, con garanzie certe e verificabili, alcuni Stati dell’area che hanno dato finora garanzie di stabilità e di lotta al Jihad, e) ricondurre una lotta culturale non contro l’Islam, che pure è il brodo di coltura di questi universi della violenza, ma contro le tradizioni militanti del mondo islamista.

In altri termini, il Califfato lo dobbiamo rifondare noi occidentali, garantendoci un Islam non totalizzante e pacifico, come quello del mondo Ottomano fino alla Prima Guerra Mondiale.

Detto tra noi, il primo conflitto del XX secolo è stato un errore strategico senza pari: ha distrutto il grande contenitore dell’Islam e dell’Asia a Sud-Est, ha creato de facto l’Unione Sovietica, che senza la destabilizzazione bellica non sarebbe potuta sorgere, ha portato l’Europa a dipendere dal ciclo finanziario USA, che non coincide con il nostro e che non ha i nostri interessi.

Ecco, occorre ritornare, con i nuovi strumenti di cui disponiamo oggi, ad un quadro strategico precedente alla Prima Guerra Mondiale: un grande Stato che diluisce le tensioni interne e connaturate all’Islam, del tutto autonomo ma non privo di una supervisione occidentale, un fortissimo Israele, che tutela se stesso e tutto il Mare Nostrum, e un’alleanza con la Russia, non zarista ma comunque naturaliter centralista e autocratica, altrimenti gli eredi delle tribù dei Variaghi che fondarono la prima Rus a Kiev sarebbero stati sommersi dall’Asia.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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