Scelte strategiche come le capacità militari di un Paese come l’Italia non possono spettare al Parlamento, spesso troppo condizionato da decisioni prese sull’onda di “demagogia” e “populismo”. Per questo ogni riflessione su programmi come l’F-35, al centro di una “guerra di mozioni” alla Camera, va delegata a strumenti differenti, come il Libro Bianco della Difesa.
A crederlo è Paolo Alli (Ncd, nella foto), componente della commissione Affari esteri e vicepresidente della delegazione parlamentare presso l’Assemblea parlamentare della Nato, che ne spiega il perché in una conversazione con Formiche.net.
Onorevole, cos’è accaduto alla Camera sulle mozioni sugli F-35?
Sicuramente sul tema ci sono state poca chiarezza e molta confusione. Ncd, con la mozione Cicchitto, ha provato a porvi rimedio. Abbiamo sottolineato che non è il Parlamento a poter decidere in merito a scelte così tecniche come il numero di caccia che servono al Paese. Ci si è già dotati di uno strumento adeguato per sciogliere questi nodi, ovvero il Libro bianco della Difesa, che sarà predisposto dal governo entro la fine di quest’anno. Nella nostra mozione abbiamo sostenuto che il programma F-35 potrà essere rivisto solo alla luce delle risultanze del Libro bianco stesso.
Il programma è già sceso da 131 a 90 velivoli, un numero che secondo i tecnici del Ministero della Difesa è già inferiore a quello che ci servirebbe per soddisfare al meglio le nostre esigenze di sicurezza. Ridurli ulteriormente sarebbe autolesionista.
Perché considera sbagliata la scelta di ridurre il numero di velivoli?
Non si può cedere alla demagogia e al populismo sacrificando la sicurezza, poiché quest’ultima rappresenta una precondizione a qualsiasi tipo di attività. La risorse sono poche e vanno ottimizzate e gli equilibri di bilancio sono importanti, ma devono tenere conto di tutti gli scenari.
Che conseguenze potrebbe avere per l’Italia un’ulteriore sforbiciata al numero degli aerei?
In primo luogo una diminuzione della sicurezza per il nostro Paese. Viviamo in un momento storico in cui i fronti di instabilità e le minacce si moltiplicano: dall’Ucraina alla Libia passando per il Sahel e l’avanzata del Califfato in Irak e Siria. Poi ci sarebbe la perdita o quasi l’azzeramento dei ritorni economici per la nostra industria nazionale derivanti da una revisione del programma. E poi un ridimensionamento del peso geopolitico dell’Italia. Mentre gli Stati Uniti si concentrano giocoforza sul versante pacifico e gli altri Paesi europei si rafforzano militarmente, l’Italia rischia di diventare irrilevante politicamente.
Come scongiurare questo rischio?
Questa situazione mostra in modo oserei dire drammatico l’inconsistenza politica e militare di questa Unione europea, dove ogni Paese procede in ordine sparso. Un tema di cui dovrebbe farsi carico l’Italia in questo semestre di presidenza a Bruxelles. Non essendoci nessun progetto serio di difesa comune, ogni Paese è chiamato a farsi carico di una porzione della propria sicurezza e di quella dei suoi alleati. Anche di questo si è discusso nel recente summit Nato in Galles, dove – anche a causa delle tante crisi in atto che non immaginavamo solo un anno fa – è tornato centrale il tema del burden sharing. L’Italia spende poco se paragonata ai suoi alleati e l’Alleanza atlantica ha fissato da tempo il 2% del Pil come obiettivo minimo per i Paesi per assicurare alla Nato una capacità operativa ottimale e l’adeguamento a nuove minacce come terrorismo e cyber-attacchi, ma senza perdere quelle capabilities utili a fronteggiare anche operazioni “classiche” come quelle al confine tra Kiev e Mosca.