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Come sbloccare lavoro e previdenza. I consigli di Cazzola

Durante la XVI legislatura in qualità di vice presidente della XI Commissione della Camera chi scrive ha avuto l’onore e l’onere di svolgere un ruolo in quasi tutte le misure riguardanti la materia del lavoro e della previdenza (comprese ovviamente le due riforme del ministro Fornero). Ma l’esperienza più qualificante e nello stesso tempo più tormentata è stata quella di relatore del c.d. collegato lavoro (che poi divenne la legge n.183/2010).

Quel provvedimento ha una storia particolare: inizialmente composto da sette articoli stralciati dalla legge finanziaria per il 2009, diventò di 28 dopo la prima lettura della Camera che lo licenziò nel novembre 2008. Il Senato lo restituì un anno dopo nel numero di 52 articoli (di cui almeno una dozzina del testo della Camera erano stati stralciati). Per arrivare alla sua approvazione definitiva (nel numero di 50 articoli) ci vollero, nel complesso, ben 7 letture (4 della Camera e 3 del Senato) e 27 mesi. Ad ogni lettura scoppiò un casus belli, su argomenti ogni volta diversi, tra la maggioranza di centro destra e le opposizioni. Il contrasto più forte riguardò – lo ricordiamo in sintesi – l’introduzione di una procedura di conciliazione e di arbitrato per la risoluzione delle controversie di lavoro.

La norma prevedeva che fosse, in via esclusiva, la contrattazione collettiva ad istituire tale procedura, per rendere operativa la quale le parti del contratto individuale di lavoro erano tenute a sottoscrivere volontariamente una “clausola compromissoria” – necessariamente certificata – con la quale si impegnavano a seguire la via della “giustizia privata secondo equità” per le controversie che dovessero insorgere tra loro. Mentre il testo, approvato in via definitiva, era alla firma del Capo dello Stato per la promulga, venne diffuso il solito appello dei soliti giuristi vicini alla Cgil nel quale si denunciava il tentativo perverso del ministro Maurizio Sacconi di sottrarre la tutela dei diritti dei lavoratori al loro giudice naturale e naturalmente togato. Tanto tuonò che piovve.

Dal Quirinale, il 31 marzo del 2010, anziché l’atto di promulga, arrivò un messaggio ai sensi dell’articolo 74 Cost. (il primo e per ora l’unico di Giorgio Napolitano, il secondo di un presidente nella storia della Repubblica) nel quale il Capo dello Stato chiedeva un riesame del provvedimento, specie per la questione della clausola compromissoria, evidenziando la necessità di definire, in via legislativa, meccanismi meglio idonei ad accertare l’effettiva volontà compromissoria delle parti, con riguardo al contratto individuale, e a tutelare il lavoratore, soprattutto nella fase di instaurazione del rapporto di lavoro. Inoltre, il messaggio sottolineava che la possibilità di pervenire a una decisione arbitrale “secondo equità” non avrebbe dovuto in ogni caso compromettere diritti costituzionalmente garantiti, o comunque indisponibili, nella titolarità del lavoratore.

La legge, allora, ripartì dalla Camera, dove in Commissione Lavoro vennero messe a punto le seguenti garanzie per il lavoratore, che si aggiungevano a quelle già previste (l’istituzione tramite contrattazione collettiva e l’obbligo di certificazione della clausola): nell’arbitrato di equità si doveva tener conto, oltre che dei principi generali dell’ordinamento, anche dei principi regolatori della materia (derivanti anche da obblighi comunitari); in caso di impugnazione del lodo arbitrale la competenza era, in unico grado, del Tribunale in funzione di giudice del lavoro; la clausola compromissoria non poteva essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova (e, ove non previsto, prima che fossero trascorsi 30 giorni dalla stipulazione del contratto di lavoro); la clausola compromissoria non doveva comunque avere ad oggetto le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro; davanti alle commissioni di certificazione le parti potevano farsi assistere da un legale di fiducia o da un rappresentante dell’organizzazione sindacale o professionale a cui avessero conferito mandato.

Quando il provvedimento arrivò in Aula, a causa della sciatteria della maggioranza, il Pd riuscì a far passare un emendamento che metteva in crisi tutto l’impianto. Ciò determinò altre due letture: una del Senato per cancellare gli effetti dell’emendamento ed una, definitiva, della Camera. A questo punto, i lettori domanderanno: ma dopo questo lavorio che fine ha fatto l’articolo-canaglia? E’ rimasto “in sonno” come tutte le misure osteggiate dalla Cgil. Ma il tempo è galantuomo. Provate un po’ a riflettere sulle ultime proposte di Pier Matteo Renzi Tambroni rivolte ad abbattere lo stock del contenzioso civile? In pratica si è riscoperta la soluzione Sacconi del 2010. E allora, considerato che la legge n.183 metteva a disposizione del ministro del Lavoro un’apposita procedura per superare l’inerzia delle parti e che tale norma non è mai stata abrogata, perché il ministro Poletti non si attiva a recuperarla in tema di controversie di lavoro?

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