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Stato-mafia, storia di una guerra ben poco costituzionale a Napolitano

Abituato alla durezza della lotta politica dalla sua antica militanza, per giunta in un partito –quello comunista- dove la disciplina era una cosa drammaticamente seria, Giorgio Napolitano ha ingoiato con rapidità e garbo, nonostante le indiscrezioni o retroscena di segno contrario, il rospo di una sua testimonianza al processo in corso a Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella lontana stagione delle stragi mafiose. Un rospo peraltro di assai dubbia costituzionalità, com’è stato rilevato argutamente sul Corriere della Sera da Rino Formica con l’avallo del costituzionalista Michele Ainis.

Nella stagione delle stragi di mafia Napolitano non era certamente al governo, né ai servizi segreti, ma più semplicemente alla presidenza della Camera. Dove era stato chiamato a succedere nella primavera del 1992 al democristiano Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale da un Parlamento letteralmente tramortito dall’attentato di Capaci: quello in cui perse la vita il magistrato più famoso nella lotta alla mafia, Giovanni Falcone. Che aveva però dovuto sfilarsi dalle funzioni giudiziarie più attive per sfuggire all’indivia e ai trabocchetti dei suoi colleghi, cogliendo al volo l’occasione offertagli dall’allora guardasigilli socialista Claudio Martelli, e dall’ultimo governo del democristiano Giulio Andreotti, di dirigere gli affari penali del Ministero della Giustizia.

Dopo la tragica fine di Falcone, seguita da quella di Paolo Borsellino, fu sicuramente possibile più a Scalfaro, dalla presidenza della Repubblica, che a Napolitano, dal vertice di Montecitorio, occuparsi o informarsi della lotta alla mafia e dei tentativi, se veramente vi furono, di agganciarne una parte, presumibilmente la meno sanguinaria, per neutralizzare l’altra più dura e catturarne il capo, come poi accadde con l’arresto di Totò Riina.

I RUOLI DI SCALFARO E CONSO

Non a caso fu proprio Scalfaro, già ministro dell’Interno negli anni Ottanta, a promuovere dal Quirinale un improvviso cambio al vertice del dipartimento penitenziario, e poi a volere nel 1993 come guardasigilli, dopo le dimissioni di Martelli perché coinvolto in Tangentopoli, l’ex presidente della Corte Costituzionale ed amico personale Giovanni Conso. Che fece ciò che il suo predecessore aveva rifiutato e che poteva rispondere alle aspettative di una certa mafia disposta a lavorare contro la strategia stragista di Riina e soci: l’allentamento del trattamento carcerario dei mafiosi sottoposti al regime durissimo dell’articolo 41 bis, non rinnovato per almeno 140 di loro, se non 300, secondo altre ricostruzioni.

Di quella decisione Conso, coinvolto dopo una ventina d’anni nelle indagini della Procura di Palermo sulla presunta trattativa e sospettato di false informazioni al pubblico ministero, si è assunta in pieno la responsabilità. Ma senza finire per questo fra i rinviati a giudizio, diversamente dall’ex ministro democristiano dell’Interno Nicola Mancino, mandato a processo per falsa testimonianza. Un epilogo francamente poco ragionevole, per quanto aggrappato a codici e codicilli, dietro il quale è stato visto e indicato, a torto o a ragione, il timore degli inquirenti di perdere, con accuse più circostanziate e gravi, la competenza a trattare la questione. E di dovere passare le carte ai colleghi del tribunale dei ministri, dove si arriva al processo solo con il permesso del Parlamento.

Pur estraneo per ragioni di competenze e di tempi alla materia del procedimento in corso a Palermo, Napolitano è stato acrobaticamente chiamato in causa come testimone, dopo un penoso e arbitrario tentativo, sventato dalla Corte Costituzionale, di venire coinvolto ancora di più con le “casuali” intercettazioni delle telefonate di proteste al Quirinale fatte da Mancino, peraltro anche suo ex vice presidente al Consiglio Superiore della Magistratura. Proteste raccolte dallo stesso Napolitano e più di frequente dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, e sfociate in una trasparente segnalazione ufficiale alla Cassazione, per un difettoso o mancato coordinamento di più indagini condotte in varie sedi giudiziarie sugli stessi fatti.

GIUDICI SOTTO L’ARCO DI TITO

Per il clamore provocato dalle notizie proprio sulle intercettazioni nelle quali era incorso anche il capo dello Stato il povero D’Ambrosio il 18 giugno del 2012 rassegnò in un’accorata lettera le proprie dimissioni, che Napolitano respinse immediatamente confermando la fiducia nel suo collaboratore, ma non riuscendo a placarne le sofferenze fisiche, tradottesi il 26 luglio in un infarto mortale. E’ curiosamente per quella lettera, non potendosi più usare per espresso divieto della Corte Costituzionale le registrazioni delle telefonate ricevute da Napolitano, distrutte dopo molte resistenze, che il capo dello Stato dovrà deporre nel Palazzo del Quirinale ai giudici di Palermo in trasferta.

Ma, più che al Quirinale, dove il presidente della Repubblica ha il diritto di essere ascoltato, senza doversi recare in un’aula di tribunale, questa curiosa udienza giudiziaria dovrebbe svolgersi sotto l’Arco di Tito, metaforicamente adatto alla caccia alle farfalle. Tale infatti è quella propostasi dagli inquirenti dopo che Napolitano ha avvisato, in una lettera del 31 ottobre scorso, di non avere nulla da chiarire a proposito della missiva del suo defunto consigliere, peraltro da lui stesso fatta diffondere pubblicamente. Una missiva che ha invece insospettito i magistrati per un “Lei sa” che vi è contenuto nel contesto di amare e preoccupate riflessioni del povero D’Ambrosio sul ruolo ch’egli si trovò a svolgere all’epoca dei fatti oggetto del processo.

Ma quel “Lei sa”, più che al lavoro da lui svolto come magistrato consigliere del Ministero della Giustizia negli anni della presunta trattativa, fu riferito da D’Ambrosio ad uno scritto chiestogli dalla sorella del povero Falcone. Alla quale pertanto dovrebbero rivolgersi come teste, più che a Napolitano, i giudici e gli inquirenti di Palermo.

QUEL PARERE DI D’AMBROSIO

Quanto poi al lavoro specifico di D’Ambrosio al Ministero della Giustizia all’epoca dei fatti trattati dal processo a Palermo, nella lettera a Napolitano si parla di un timore di potere essere stato e di poter essere ancora scambiato per “ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Ebbene, data l’impossibilità già dichiarata dal capo dello Stato di fornire chiarimenti, sarebbe stato e sarebbe più logico per gli inquirenti rivolgersi a Conso o cercare fra le carte del Ministero di via Arenula. Dove probabilmente ne devono essere di scritte da D’Ambrosio, magari per esprimere parere favorevole alla decisione dell’allora guardasigilli di non rinnovare il trattamento di carcere duro per qualche centinaio di detenuti per mafia. Ma con Conso, come si è visto, per quanto si sia assunta tutta intera la responsabilità di quella scelta nell’esercizio delle sue funzioni di governo, gli inquirenti non sembrano interessati ad approfondire nulla per il timore di fare scattare la competenza del tribunale dei ministri.

Che c’entra allora Napolitano? Niente. Il suo “torto” forse è solo quello di avere implicitamente condiviso, respingendone le dimissioni e rendendone poi pubblico il testo, i giudizi negativi espressi da D’Ambrosio nella sua lettera a proposito proprio delle indagini sulla presunta trattativa. In quella missiva infatti si esprime, in particolare, e testualmente, “il ripudio di metodi investigativi non rigorosi, o almeno non sufficientemente rigorosi, nella ricerca delle prove e nella loro verifica di affidabilità”. E, sempre a proposito di quelle indagini, “l’abiura di approcci disinvolti non di rado più attenti agli effetti mediatici che alle finalità di giustizia”. Parole terribili, scritte da un magistrato in una lettera che potrebbe ben definirsi un testamento morale, visto che D’Ambrosio sarebbe morto di lì a poco. E Antonio Ingroia, protagonista del lavoro inquirente sulla presenta trattativa, sarebbe poi passato direttamente alla politica candidandosi addirittura, e fallimentarmente, alla presidenza del Consiglio nelle elezioni del 2013.


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