Con un’azione ampiamente attesa, gli Stati Uniti e cinque Paesi arabi alleati hanno effettuato i primi attacchi aerei in Siria contro obiettivi dello Stato Islamico. Tra loro, però, un’assenza che pesa: quella della Turchia, membro della Nato.
Nella guerra ai jihadisti guidati dal “califfo” al-Baghdadi, l’offensiva apre un altro fronte, dopo quello iracheno. Sui cieli di Damasco, in particolare sulla roccaforte di Raqqa, volano i moderni caccia americani stealth F-22 Raptor e decine di droni, mentre missili Cruise sono partiti da navi statunitensi schierate nel Golfo Persico. Tra i target degli Usa anche il gruppo Khorasan, meno noto ma considerato il più insidioso e capace di realizzare un attacco contro gli Stati Uniti.
Il Centcom, lo US Central Command con quartier generale a Tampa, in Florida, ha spiegato che nei raid sono coinvolti Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Le novità sono ovviamente militari, ma anche politiche, vista l’efficacia dell’ampia coalizione messa in campo dal presidente Barack Obama e la collaborazione con il governo di Bashar al-Assad nel contrastare il gruppo terroristico.
LA POSIZIONE TURCA
Ankara per il momento resta a guardare. In un primo momento la nazione presieduta da Recep Tayyip Erdogan aveva dichiarato la propria indisponibilità a partecipare alla coalizione, soprattutto a causa del sostegno occidentale ai curdi. “La Turchia – spiegò il generale Vincenzo Camporini a Formiche.net –, è tendenzialmente d’accordo sul contrastare l’IS, ma ha paura a dotare di armi pesanti i peshmerga. Teme che il rafforzamento della componente curda irachena possa poi fare da calamita per i curdi sparsi negli altri Paesi, compresa la Turchia stessa, ricompattando un popolo ora diviso“.
LE ULTIME TENSIONI
Molti analisti, però, collegano la posizione turca, almeno su un piano ipotetico, alle molte frizioni maturate negli ultimi anni. Ankara – che ha da tempo iniziato un percorso per aderire all’Unione europea e che da componente dell’Alleanza atlantica condivide con larga parte dell’Occidente politiche di difesa e sicurezza e avrebbe pertanto dovuto essere in prima linea in questa battaglia – ha da tempo assunto una posizione polemica quando non apertamente provocatoria nei confronti dei suoi partner. Gli episodi sono molteplici: gli scontri del Parco Gezi sedati con la violenza, la censura dei social network, la decisione di produrre con la Cina un sistema anti-aereo, la discussa riforma che ha portato Erdogan alla presidenza e spinto al suo posto il nuovo primo ministro turco Ahmet Davutoglu, i timori per le infiltrazioni dell’IS nel Paese a causa di un atteggiamento troppo ambiguo e di una deriva islamista sempre più forte. Elementi che preoccupano non poco Washington e Bruxelles.
GLI OSTAGGI LIBERATI
Queste tensioni fanno il paio con la messa in libertà, non senza polemiche, dei 46 ostaggi turchi sequestrati lo scorso giugno dall’IS a Mosul. Non è ancora chiaro se sia stato offerto un riscatto. Il governo turco lo nega fermamente, ma diversi esperti ritengono che non solo Ankara abbia potuto pagare, ma che l’improvvisa liberazione sia una sorta di “ringraziamento” dei jihadisti alla Turchia per non essersi unita al fronte americano e aver rifiutato persino di fornire le sue strategiche basi a ridosso della Siria. Una denuncia ancora più forte arriva dai curdi, secondo i quali sul fronte turco siriano, il governo di Davutoglu starebbe aprendo e chiudendo le frontiere, a seconda della esigenze, con l’intento di sostenere i terroristi.
DA ALLEATO A “NEMICO”?
Che succede dunque in Turchia? Sono in molti nelle cancellerie occidentali a chiedersi se Ankara vada ormai considerata come un alleato recalcitrante o un prossimo “nemico”. Su questo, come su altri dossier come quello libico, un ruolo fondamentale potrebbe essere giocato dall’Italia, che per ragioni geografiche, economiche e geopolitiche potrebbe essere “pontiere” nel rapporto tra Turchia e l’Occidente. D’altronde Roma intrattiene già con la Turchia solidi legami commerciali, beneficia di una posizione strategica nel Mediterraneo ed è stata nel recente passato tra i maggiori sponsor dell’entrata del Paese nell’Ue.