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Vi spiego tutte le difficoltà della sacrosanta coalizione anti Isis

Raramente nella storia si è vista una coalizione tanto “sparpagliata” quanto quella che gli USA stanno organizzando contro l’Isis. L’Occidente non intende schierare forze terrestri. Quindi, la partecipazione dei Paesi musulmani, arabi e non, è essenziale. Lo è anche per conferire una certa legittimità all’intervento. Obama non ne ha chiesto l’autorizzazione all’Onu. Temeva che Mosca ponesse il veto ai bombardamenti in Siria, effettuati senza il coordinamento con Assad. Di esso, gli Usa non vogliono sentire parlare, per ragioni di principio, ma soprattutto perché renderebbe ancor più difficile la necessaria collaborazione con i sunniti non solo in Siria, ma anche in Iraq. Già ora, i sunniti temono che gli Usa stiano collaborando con i loro nemici: gli sciiti e l’Iran e i suoi sodali: gli Alawiti e gli Hezbollah. Eppure, sarebbe l’unico modo per avere un pieno sostegno non solo di Teheran, ma anche di Mosca. In Siria, gli Usa devono letteralmente arrampicarsi sugli specchi. Bombardando l’Isia, rafforzano Assad. Devono basarsi sugli insorti moderati. Ma essi sono deboli e divisi. Vanno, quindi, rafforzati militarmente – e questo si può fare – ma anche resi più coesi, il che è molto più difficile, se non impossibile.

Obama non ha chiesto neppure il voto del Congresso. Ha dato un’interpretazione un po’ stiracchiata dell’autorizzazione data dal Congresso al Presidente nell’ottobre 2001 di impiegare la forza contro il terrorismo. Per ironia della sorte, è proprio ad essa che si era rifatto il tanto criticato Bush per attaccare nel marzo 2003 Saddam Hussein.

In Iraq, la situazione è comunque più semplice. Curdi e sciiti combatteranno l’Isis, pur con tutte le limitazioni della loro potenza di fuoco e coesione delle unità. Ma non è sufficiente. Gli Usa devono ottenere l’appoggio di qualche tribù sunnita. Dovrebbero trovare un nuovo generale Petraeus, che fu capace di farlo nella provincia di Anbar, in parallelo al surge delle forze Usa nel 2006-08. Ma è difficile che si verifichi un nuovo “Risveglio Sunnita” o Sawha, almeno delle dimensioni di quello allora verificatosi nella provincia di Anbar. Al-Abadi, non è in grado di mutare radicalmente la politica settaria, antisunnita e anticurda di al-Maliki, causa prima del caos iracheno. Al-Maliki è rimasto vicepresidente. Le Forze armate e di polizia non sono state epurate dai sui fedeli. Le milizie sciite – mobilitate da Baghdad a sua difesa contro l’Isis – hanno per prima cosa massacrato i fedeli in una moschea sunnita nei pressi della capitale. Al-Abadi non si fida. Ha chiesto che l’Arabia Saudita e l’Egitto non partecipino ai raid aerei contro l’Isis. Si è anche lamentato perché l’Iran partecipa alla coalizione.

Eppure, senza un chiaro e ragionevolmente rapido successo sull’Isis non diminuirà l’afflusso di finanziamenti, reclute e armi, acceleratosi dopo la conquista di Mosul e le macabre decapitazioni. Il fascino oscuro della violenza e del male ha un forte potere d’attrazione sui giovani musulmani e anche europei. Le fanterie curde e sciite sono indispensabili. Ma Baghdad ed Erbil affermano che passeranno all’attacco per riconquistare Mosul e Falluja solo dopo che i cacciabombardieri americani e di qualche altro “volenteroso” avranno indebolito fortemente l’Isis. Qui il diavolo si morde la coda. L’efficacia dei bombardamenti dipende dall’azione a terra. Solo essa può obbligare l’Isis a impegnare allo scoperto le sue forze pesanti, che stanno spostandosi al riparo nei centri urbani. Qui non possono essere colpite, per il timore della coalizione di provocare troppi “danni collaterali”, cioè distruzioni e vittime civili. E’ quindi probabile che si continui a bombardare un po’ a casaccio, utilizzando per la designazione degli obiettivi quei pochi nuclei di forze speciali schierati in Iraq.

Obama ha affermato che seguirà una strategia simile a quella adottata in Somalia e nello Yemen, dove gli Usa non hanno conseguito grandi successi. Di fatto sta seguendo quella adottata nell’autunno 2001, nella prima fase delle operazioni in Afghanistan. L’Alleanza del Nord, appoggiata massicciamente dall’aviazione e da qualche nucleo di forze speciali Usa, sbaragliò i Talebani, provocandone il crollo. In Medio Oriente non esiste qualcosa di simile all’Alleanza del Nord. Forse i curdi e le Golden Brigates, cioè le forze speciali del governo di Baghdad, acquisiranno una potenza sufficiente per farlo. Occorrerà molto tempo. E’ ironico ricordare come Obama avesse dichiarato la fine del periodo delle “lunghe guerre” prima alla National Defense University, poi a West Point pochi mesi fa, nel maggio 2014. Penso che si morda le mani per non aver seguito nel 2011 il consiglio dei suoi generali di lasciare in Iraq 15-20.000 soldati, fino alla completa pacificazione del paese. La fretta di Obama di ritirare subito tutte le truppe è stata disastrosa. Per inciso, la lezione è stata imparata. Non verrà ripetuta in Afghanistan.

Le difficoltà che dovrà affrontare il generale John Allen, già vice di Petraeus nell’Anbar e designato comandante della coalizione, non sono militari, ma politiche. Esse derivano dalla divergenza d’interessi degli Stati che vi partecipano. Le contrapposizioni sono emerse chiaramente nella riunione di Parigi del 15 settembre. Fra i Paesi occidentali solo la Francia e l’Australia concorreranno agli attacchi aerei. Verosimilmente, lo farà anche il Regno Unito. Cameron ha rinviato ogni decisione dopo il voto scozzese del 18 settembre. Sa che la maggior parte degli scozzesi è contraria a un nuovo intervento in Medio Oriente. Non vuole rafforzare il partito indipendentista.

Se per gli occidentali gli obiettivi sono abbastanza coincidenti, tra i Paesi musulmani (agli arabi vanno aggiunti la Turchia e l’Iran) esistono profonde e insuperabili divergenze. Da molti Paesi sunniti, l’Isis è considerato un alleato contro gli sciiti iracheni e contro l’Iran e i suoi alleati, da Assad all’Hezbollah. Giordania e Turchia si sono “chiamati fuori”. Forniranno solo appoggio logistico. Il Qatar ha sinora appoggiato i Fratelli Musulmani, ai ferri corti con i salafiti. L’Iran intende salvaguardare la sua influenza in Iraq. Appoggia Assad. Non accetterà senza reagire il rafforzamento dei sunniti siriani che lo combattono. Non si sa che cosa comporterà il rafforzamento dei curdi iracheni e siriani. Insomma, un pasticcio, da cui non si vede come uscire, anche perché, a differenza di Bush, Obama non ha precisato quali sono gli obiettivi politici dell’intervento. Difficilmente si potranno mantenere le attuali frontiere fra gli Stati. Più probabile è una profonda e inedita modifica della geopolitica mediorientale e nordafricana. Questi i principali interrogativi: Che significa distruzione dell’Isis? Stato curdo in Iraq o di tutti i curdi? Quali reazioni della Turchia e dell’Iran? Divisione dell’Iraq o anche della Siria? De-radicalizzazione delle dinastie del Golfo? Intervento egiziano in Libia? Quale influenza della Turchia e dell’Iran in Medio Oriente e nel Golfo?



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