Con Paolo Gentiloni arriva alla Farnesina un politico di lungo corso. E ce n’è davvero bisogno. Il giovanilismo ha un limite, così come l’improvvisazione e il femminismo pro quota: è questo, del resto, il messaggio che Giorgio Napolitano ha mandato chiaramente. Ma il nuovo ministro ha un compito da far tremare le vene: niente meno che costruire una politica estera per un governo che non ce l’ha. L’ipercinesi e le pacche sulle spalle non bastano. Se l’Italia non vuole fare solo shuttle diplomacy, deve sedere saldamente su uno sgabello a tre gambe: quella americana, quella europea e quella mediorientale.
L’europeismo vecchia maniera è ormai una giaculatoria vuota. L’Italia è (ancora) una piccola potenza di valore strategico, più di altre in Europa: infatti il fulcro dei nuovi equilibri strategici non sta più tra il Reno e l’Elba, ma nel Mediterraneo (e nel Mar della Cina ad oriente). Nell’ultimo decennio l’Italia si è impegnata molto in troppe aree del mondo, provocando un overstretching magari produttivo sul piano dell’immagine (tipo guerra di Crimea per il Piemonte), ma costoso e dispersivo sotto tutti gli altri punti di vista. Con l’Asia noi possiamo fare business, non politica, tanto meno giocare un ruolo militare. Quanto all’idea di essere il cliente “privilegiato” di una Russia euroasiatica s’è rivelata pericolosa. Invece, dati i suoi mezzi e la sua collocazione geostrategica, l’Italia deve accreditarsi come la porta (non sublime per carità) per l’Africa e il Medio Oriente.
Le conseguenze di questo “recentrage” sono vastissime e complicate. C’è l’onda migratoria, naturalmente (il passaggio da Mare Nostrum a Triton si configura come un pasticcio e si spera non diventi un disastro). C’è la Libia: per l’Italia ricostruire, sia pur in modo provvisorio, un equilibrio laggiù è una priorità da riportare nell’agenda internazionale dalla quale è stata cancellata. C’è la Tunisia, dove Roma ha avuto un ruolo di primo piano (ai tempi di Craxi persino eccessivo), e che oggi occorre accompagnare in questa transizione democratica. C’è da riprendere e rafforzare la partnership con l’Egitto. E, naturalmente, c’è Israele con la questione palestinese.
Si sta diffondendo una spinta a iniziative unilaterali, ideologiche e avventuristiche come quella della Svezia che ha riconosciuto il potenziale Stato palestinese o come il voto a Westminster. Gentiloni dovrebbe dire chiaramente ai partner europei che non si scherza con il fuoco: muoversi come elefanti sprovveduti equivale ad affossare l’obiettivo dei due Stati. Con la Mogherini è prevalsa una sorta di equidistanza che piace a Bruxelles. Invece, l’Italia si deve distinguere.
Ciò vale anche per la nuova equidistanza tra est e ovest che va di moda in Germania. L’Italia ha un canale aperto con la Russia che non si è chiuso nemmeno durante la Guerra Fredda. Ma non è mai servito per collocarsi a metà strada tra Washington e Mosca; al contrario, fin dai tempi in cui Vittorio Valletta aprì la fabbrica Fiat a Togliattigrad con il viatico della Casa Bianca, serviva per riagganciare la Russia all’Occidente, compito ancor più importante oggi, perché non è bastata la caduta del muro ideologico, per abbattere quello nazional-culturale.
Vasto programma, forse troppo. Ma l’Italia ha bisogno di giocare un ruolo importante, il suo proprio ruolo, dopo un lungo periodo in cui è stata considerata dai Paesi del nord Europa (e lo è ancora) non solo una palla al piede della quale non ci si può liberare, ma un malato terminale. In questi sette anni di vacche magre e di umiliazioni, gli Stati Uniti hanno continuato a trattarci non da paria, ma da partner (impicciandosi talvolta in modo maldestro negli affari nostri). Ed è agli Usa che dobbiamo guardare per riprendere il posto che ci spetta come Paese fondatore dell’Europa, anche se quella era un’altra Europa.
Stefano Cingolani