L’Europa è ferma sul bordo del baratro. La settimana scorsa abbiamo assistito ad uno shock di notevole ampiezza nel mercato borsistico, bruciando decine di miliardi di euro. Se le serie storiche ci insegnano qualcosa, il rimbalzo di Venerdì scorso e quello annunciato oggi dalle borse asiatiche fa presagire un nuovo imminente tonfo.
Di crescita e ripresa non se ne vede l’ombra. Il coordinamento europeo è pressoché inesistente e quindi ognuno si arrangia come può.
La Germania, che ha dovuto piegarsi alle esigenze geopolitiche americane, ha fatto fallire la finestra di opportunità che essa stessa, di concerto con l’Italia, aveva costruito per rilanciare il dialogo con la Russia al vertice Asem di Milano. “O tutto o nulla” ha detto la Merkel a Putin che ha risposto “no grazie”. Quindi, adesso il solo modo per evitare la ripresa delle ostilità sarà che tramite la Ue si paghino i debiti ucraini alla Russia. Allo stesso tempo, sempre su pressione americana, nonostante la posizione del parlamento tedesco favorevole allo stato di Palestina, Berlino ha dovuto concedere uno “sconto” di 300 milioni di euro a Israele che compra fregate lancia missili made in Germany (oltre a rifornirsi anche di sottomarini). Sul Ttip l’ostilità teutonica sembra essersi addolcita, ma deve ancora digerire che i tribunali arbitrali privati – cioè delle corporation – prevalgano su quelli nazionali ed europei. Per compensare tutto ciò e per garantirsi il flusso di capitali che cercano protezione nelle obbligazioni sovrane tedesche, Berlino insiste sul mix di austerità e riforme strutturali.
La Francia ha ormai inventato una “via socialista nel neoliberismo” incarnata dal governo Valls ma soprattutto dal ministro dell’economia, Emmanuel Macron, un banchiere ex Rothschild. Per far digerire a Bruxelles la legge finanziaria in evidente deficit, Parigi ha dovuto concedere tagli (50 miliardi) di spesa pubblica e la ristrutturazione dei servizi pubblici e del mercato del lavoro. D’altra parte, Parigi beneficia di un occhio di riguardo americano, dopo che l’Assemblea nazionale durante l’estate scorsa approvò senza dibattito alcuno il Ttip. Macron ha dichiarato che “proteggendoci troppo, alla fine non si protegge nulla … si deve cambiare mentalità”. Insomma, un “paese malato” che deve cambiare senza sapere bene in che direzione sta andando (Le Monde).
L’Italia renziana segue il solco francese del “cambiamento senza direzione” nel quadro di un neo-socialismo che oltre a continui annunci di misure di “giustizia sociale” la cui sostenibilità è possibile solo creando nuovo debito pubblico, non si discosta di un millimetro dal quadro transatlantico – Renzi: “il Ttip è giusto perché non è solo un accordo commerciale ma è un patto strategico, una visione culturale” – e da quello del rigore teutonico, stigmatizzato nel rispetto della regola del 3%. Per il resto, la svendita di asset industriali decotti continua nella speranza di ricevere liquidità sufficiente a tenere il bilancio nei limiti richiesti. In materia di tribunali arbitrali privati per dirimere dissensi tra investitori stranieri e lo stato, le parole della neo nominata presidente Eni e presidente della lobby industriale europea, Emma Marcegaglia, sono emblematiche: “avere gli stessi standard americani è un vantaggio reale per le Pmi europee … i tribunali arbitrali funzionano benissimo e sono già il sistema di funzionamento del commercio internazionale” (Convegno sul Ttip della presidenza italiana dell’Ue, Roma 14 Ottobre).
Nel Regno Unito si temono ormai le conseguenze delle prossime elezioni legislative, nella primavera 2015, con un partito nazionalista inglese sempre più agguerrito e la concreta possibilità che il Brexit, cioè il referendum per l’uscita dall’Ue, sancisca il divorzio. Tuttavia, la City, che è il cuore pulsante del Regno Unito, ha tutto l’interesse che l’eurozona sopravviva in modo da continuare a lucrare sulla gestione dei derivati denominati in euro ma scambiati a Londra. Liberarsi dei legami con l’Ue permetterà al Regno Unito di perseguire una politica molto aggressiva in politica monetaria e tassi di interesse, con l’obiettivo di sottrarre alla Germania quei flussi di capitale europeo che per ora si nascondono nei suoi bond.
L’Ue vive ormai in una stagnazione che potrebbe diventare “secolare”. L’eurozona è principalmente un “mercato semi-chiuso” in cui si scambiano beni e servizi. I poteri di politica monetaria della Bce sono allo stremo, ed essa tenta di agire sempre di più in una zona giuridica grigia (aspettando la sentenza della Corte europea sugli Omt). La piccola svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, concordata tra Fed e Bce, non è servita affatto a far ripartire l’economia. Per avere un effetto dovrebbe adottarsi una svalutazione ben più profonda, ma la Bce non ha questo potere e la Germania non offre speranze neppure alla sua Commissione Juncker.
Come nota giustamente il Financial Times di oggi, a firma di Wolfgang Munchau, l’Ue è confrontata a tre alternative. La soluzione migliore, ma per ora politicamente impossibile, sarebbe di trasformare l’eurozona in una Unione politica che mutualizzi debito e crescita attraverso il lancio di eurobond sul mercato. La seconda opzione è di rassegnarsi alla “stagnazione secolare”, e la terza è la divisione dell’eurozona in due gruppi. Posto che la prima opzione non è praticabile, lo scenario più plausibile è una combinazione della seconda e della terza. Cioè scegliere tra depressione e fallimento.