Anni di austerity imposta da Berlino ai Paesi dell’Eurozona hanno finito per danneggiare la stessa economia tedesca? L’ipotesi si fa largo sempre più anche tra economisti e osservatori, finora più inclini al rigore, rafforzata dal taglio della Germania alle sue previsioni di crescita per questo e il prossimo anno: da +1,8 e +2% a +1,2 e +1,3%.
IL COMMENTO DEL FINANCIAL TIMES
La mossa, commenta il Financial Times, evidenzia le preoccupazioni crescenti del governo di Angela Merkel circa l’impatto della stagnazione nella zona euro, delle crisi geopolitiche in Ucraina e in Medio Oriente e del rallentamento nei mercati emergenti sull’economia tedesca.
NUOVA CRISI IN VISTA?
Il timore è quello di una nuova crisi profonda, le cui prime avvisaglie sono arrivate con la terza recessione in sei anni. E a impedire una risposta coordinata a quanto accade, rimarca ancora il giornale economico, contribuirebbe proprio lo stallo tra la Bce di Mario Draghi, Berlino e gli altri governi europei.
I SEGNALI NEGATIVI
I segnali di una nuova tempesta sarebbero molteplici. In primo luogo, spiega il Wall Street Journal, si assisterebbe a un crollo dell’indice che misura la fiducia degli investitori, testimoniato dal rendimento dei bund decennali tedeschi, ormai ai minimi storici (0.84%).
Per il giornale della borsa newyorkese, gli investitori cercano sicurezza, percepiscono una nuova ondata di instabilità dettata dalla crisi continentale del debito e stanno scommettendo che la Banca centrale europea dovrà intensificare gli sforzi di stimolo per scongiurare la minaccia di deflazione nell’area valutaria – anche se questo significherà l’acquisto di titoli di Stato nel quadro di un programma di quantitative easing.
Un allarme che la presidente del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, ha allargato anche a Berlino, dicendo c’è il 40% di probabilità di una recessione in Germania.
Non solo. Anche i “dati sull’inflazione di settembre – come sottolinea un report di Mps Capital Services – hanno confermato il rallentamento in atto”. Da evidenziare, si legge, “come continuano a scendere le aspettative di inflazione a 5 anni fra 5 anni, portatesi al minimo della serie (che parte dal 2004) sotto l’1,8% da 1,9%di inizio mese“. Il dato, aggiunge il report di Mps, è rilevante, perché “viene particolarmente guardato dalla Bce per valutare eventuali scelte di politica monetaria“.
LE CONSEGUENZE POLITICHE
Nel frattempo, rileva il tedesco Spiegel, crescono le critiche alla strategia tedesca. Da quella dell’esperto del Fmi Mahmood Pradhan (“siamo preoccupati per il rallentamento della Germania“), a quella dell’ex primo ministro finlandese, ora commissario agli Affari economici Jyrki Katainen, che ha avvertito che Berlino ha bisogno di investire in infrastrutture ed educazione per rimanere forte. Persino un altro super-falco come il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, ha spiegato lunedì al Frankfurter Allgemeine Zeitung che la Germania deve proseguire sulla strada delle riforme già iniziate, piuttosto che “pensare con aria di sufficienza” a ciò che è stato fatto anni prima.
Per Bloomberg la politica recessiva di Bruxelles, già criticata in passato dal Tesoro Usa, non potrà che mutare. La Germania, “poliziotto della disciplina fiscale in Europa“, si legge in un’analisi, starebbe “cominciando ad avere dei ripensamenti circa l’equilibrio del proprio bilancio“. La cancelliera Merkel, ricorda il sito finanziario, “ha promesso durante la sua campagna di rielezione nel 2013 di rinunciare a nuovo indebitamento pubblico, al fine di mantenere il bilancio del suo governo in perfetto equilibrio. Ora, che il crollo delle esportazioni spinge la più grande economia europea sull’orlo della recessione, alcuni dei suoi connazionali stanno facendo pressione perché allenti i cordoni della borsa per stimolare la crescita“. Ma è davvero così?
CAMBIA IL MERCATO
Il modello export-led di Berlino – scrive l’editorialista Guido Salerno Aletta -, testimoniato da un attivo della bilancia dei pagamenti tedesca che non mostra flessioni (ad agosto è stato di 137 miliardi di euro), non è mutato: sono cambiati solo i Paesi di destinazione.
“La Germania, scegliendo di non pareggiare i conti con il resto dell’Eurozona attraverso un aumento delle proprie importazioni da questa area, ha deciso di dis-integrarsi dal resto dell’Unione europea: mentre nel 2007 il 65% del totale dell’export tedesco aveva una destinazione europea, nel 2013 questo rapporto è sceso al 57%, una percentuale pari a quella dell’import“.