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Ecco come rilanciare le Pmi agricole italiane

Riceviamo e pubblichiamo

Nel caso delle PMI impegnate nell’agricoltura, i dati sono più complicati da studiare data la variegatissima forma, non solo giuridica, delle imprese che si occupano di questo necessario settore.
Oggi, le statistiche più affidabili parlano di 2,5 milioni di aziende, ma le cancellazioni, le mai avvenute iscrizioni in Camera di Commercio, le trasformazioni da poli- a monocultura, tutto ciò porta ad una incertezza inevitabile sulla reale dimensione e produttività media delle imprese che stiamo qui studiando.

La Unione Europea, recentemente, ha prodotto uno studio, legato alla dichiarazione di fare del 2014 l”anno dell’agricoltura familiare europea”, le solite azioni propagandistiche che nulla producono.
Il suddetto testo di analisi ci dice che, alle ultime verifiche possibili, in Italia ci sono 1621 imprese agricole di piccole dimensioni, mentre la Francia, con i “trecento formaggi” che, secondo De Gaulle, ne rendevano impossibile il governo, ha solo 516 PMI agricole familiari, e la Germania ne ha addirittura solo 299.

Le aziende di semisussistenza sarebbero, in Italia, sempre secondo il testo dell’UE solo 40. C’è da dubitare.
L’ISTAT, comunque, parla al 2012 di 1.620.844 imprese agricole, piccole, medie e grandi, con le PMI più piccole ormai fuori dal mercato, e ormai in uno status di precaria sussistenza delle famiglie operanti, mentre la media della superficie per azienda è arrivata a ben 7,6 ettari di superficie utilizzata (SAU) ovvero dobbiamo notare che le imprese con meno di 30 ettari sono di fatto morte, mentre quelle di maggiore superficie hanno prosperato e si sino ampliate.

La superficie in affitto è aumentata del 50,3%, segno di una sottocapitalizzazione forte del settore agricolo, mentre le SAU date in uso gratuito sono cresciute addirittura del 110, 8%, mentre le aziende condotte in forma societaria sono solo il 3,6% del totale, ma lavorano bel il 17,7% della intera superficie agricola disponibile in Italia. Il “Capitalismo nelle campagne” per ricordare il vecchio e bel testo di Emilio Sereni.

In soli dieci anni, gli ultimi, la manodopera in agricoltura è diminuita di oltre il 50%, mentre aumentano i lavoratori agricoli salariati, e il 57% della forza-lavoro proviene dalla UE-27, mentre il 42% dai paesi non-EU.
Ovvero, la troppa regolamentazione, che peraltro riguarda un settore dall’economia naturalmente ciclica, ha portato alla accettazione di una quantità spropositata di lavoro non-italiano, mentre sarebbe assolutamente necessario riportare alla campagna le braccia giovanili che non trovano più lavoro nel cimitero industriale delle città.

A questa situazione non del tutto positiva, si aggiunge un primato di cui andare davvero fieri: l’Italia è il primo Paese per numero di riconoscimenti DOP, IGP e STG conferiti alle nostre aziende agricole.
I settori delle PMI agricole nazionali che mostrano riconoscimenti di qualità sono gli ortofrutticoli e i cereali, (101 prodotti) i formaggi (47) gli oli EVO (43) e le preparazioni riguardanti le carni (37).
Segno che il nesso qualità-dimensioni non sempre premia il piccolissimo produttore, ma è bene ricordare che sono stati i micro contadini, negli anni scorsi, ad aver preparato la strada, con i loro prodotti di nicchia, alle medie imprese dell’agrifood italiano.

Sempre secondo questi dati ISTAT, le imprese agricole inscrivibili nella categoria PMI sarebbero 75.156 unità.
Tante, sottorappresentate politicamente, dato che ancora non ci togliamo di dosso il mito dello “sviluppo industriale”, che è ormai questione del passato, in Italia, e ormai la vecchia “bonomiana” della DC, la vecchia Coldiretti, con gli ottanta deputati democristiani eletti dalla associazione collaterale alla DC tra i contadini, non c’è più.

E pensare che la Carta di Camaldoli diceva chiaramente che, all’art. 77, ricordava che: la proprietà agricola piccola, mezzadrile e familiare non contrasta necessariamente con il progresso della produzione agricola”.
Voleva fare la “marcia su Roma” contro il centro-sinistra, il vecchio Bonomi, ricordiamolo.
Per tornare all’economia vera e propria, davvero “la scienza triste” quando si parla di campi, ortaggi, mucche, formaggi, frutta, tutti argomenti per i quali preferiremmo Teocrito e Virgilio, i prezzi dei prodotti per l’agricoltura diminuisce dello 0,6%, mentre i prodotti venduti dagli agricoltori diminuiscono in modo del tutto sensibile: con uno straordinario -9,3% dei prodotti ortofrutta, e i prodotti animali di vario tipo segnano un modesto aumento dello 0.8%.

I sostegni alle imprese agricole sono molti, complessi e, in qualche caso, ben finalizzati. C’è il “prestito di conduzione”, il “flexicredito agricolo” per gli impianti da rinnovare, l’”anticipo di contributi AGEA”, l’”anticipo per i piani di sviluppo rurale”, le convenzioni con i creditori, il “finanziamento di dotazione”, sempre per i macchinari, e i finanziamenti a fondo perduto dell’UE amministrati a livello regionale, valgono al massimo per il 40% dell’importo richiesto.

Troppe forme di sostegno, qualche sostegno all’agricoltura che serve più i fornitori che i contadini, i fondi UE difficili da gestire per la complessa trattativa con la “sedi competenti” il burocratese, le furbizie dei mediatori, la lunghezza che non risponde spesso ai tempi del ciclo commerciale, e quindi debiti, anticipi, etc.
Ed è bene ricordare che, sempre secondo il Codice di Camaldoli, la piccola impresa agricola è un elemento di stabilità efficiente che può superare più facilmente i punti morti della crisi economica.

In altri termini, cessare il carnevale delle innumerevoli tipologie di finanziamento alle PMI agricole, computare un “fondo perduto” erga omnes da stabilire sulla base dell’esperienza, della preparazione, del precedente risultato della gestione del fondo e dell’impresa, stabilire quindi una raccolta centralizzata dei vari finanziamenti a fondo perduto e gestire, anche quello che eccede da una regione all’altra.

Uniti si vince, anche tra i campi, e immagino che una trattativa tra Stato e UE per il piano dei finanziamenti a fondo perduto sarebbe utile per la maggiore quantità e per la non-discrezionalità della loro distribuzione.
E poi, sarebbe utilissimo pensare ad una Banca dell’Impresa Agricola, la vecchia Banca dell’Agricoltura lombarda, e oggi il sistema finanziario sostiene l’agricoltura, con il paradosso del più importante settore del Primario viene sostenuto dalle banche e dai governi, come se si trattasse di una “industria matura” da far morire il più rapidamente possibile.

E’ vero il contrario: dobbiamo costituire una Banca nazionale che si occupi di lavoro agricolo, non per tutelarlo da non si sa che cosa, ovvero dalla stupidità, spesso, di chi gestisce i mercati finali e i finanziamenti, che spesso non seguono i cicli produttivi, i disastri inevitabili (è il caso dell’olivo e quindi dell’olio EVO del prossimo anno) che sia gestita da elementi selezionati dalle organizzazioni nazionali, tutte, dell’agricoltura, e che sappia anche immettere in questo meccanismo finanziario le attività di trasformazione del prodotto della terra.

Si può anche pensare ad un Fondo di sostegno, costruito dalla suddetta banca, per le imprese della terra quando qualcosa va storto e non è colpa dell’uomo, non in termini di assicurazione, che è un costo che si paga anche quando gli Elementi e la Provvidenza lavorano bene, ma che opera con gli accantonamenti ad hoc della Banca che ho preconizzato, che sarebbe finanziata per una quota dal Ministero delle Attività Agricole, miracolosamente salvatosi dopo che un malaugurato referendum “illuminista” voleva eliminarlo, dato che tutto era gestito dai nostri concorrenti europei, da una quota delle banche maggiori, che non dovrebbero trascurare un settore ciclicamente molto “liquido” e in fase di trasformazione positiva, e perché non citare qui che aumentano, secondo l’ISTAT, i “contadini laureati”?

Un altro settore della Banca che vi propongo sarebbe destinato alle Banche di affari che, sempre di più, hanno a che fare con l’impresa o il marketing di prodotti che nascono dalla terra, penso qui al vino di qualità che ormai tutte le nostre Regioni producono, o al business sempre in aumento dei prodotti food related, e infine una quota di fondo di dotazione dovrebbe essere conferita proprio dalle Regioni, per fare in modo che le loro politiche agricole si armonizzino, senza guerre intestine, in un quadro nazionale, che è quello che convince l’export internazionale e fa paura, davvero, ai mercati esteri che “copiano”, con modestissimi risultati, i nostri prodotti dell’agribusiness.

Ritornare alla Terra è difficile, per chi pensa in termini, ormai consunti, di “società industriale”, ma è una delle poche vie di uscita che ci rimangono, per salvare l’economia italiana.
Come diceva Keynes, “l’importanza dei soldi deriva essenzialmente dall’essere un legame tra il presente e il futuro”. Il resto è l’Eterno, che, tra le occupazioni dell’uomo, traspare soprattutto nell’agricoltura. Diamo denaro al lavoro più antico, importante e necessario degli uomini!



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