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Il Corriere della Sera strapazza i capitalisti

Un’analisi, ma anche un commento, con una conclusione malinconica, contrassegnata da stilettate a capitalisti e cantori di liberismi teorici e public company sognate.

E’ un Corriere della Sera sempre più frizzante e sfizioso quello degli ultimi tempi. Chissà se dipende dalla prossima uscita del direttore Ferruccio de Bortoli che, previa buonuscita da 2,5 milioni di euro, ha concordato con la società editrice di lasciare la direzione del quotidiano dal prossimo aprile, e dunque si concede beate libertà, come ha sottolineato tra l’altro di recente su Formiche.net da Gianni Gambarotta.

Sta di fatto che nelle ultime settimane il Corsera è tanto sbarazzino quanto centrale nel dibattito politico-economico. Basti ricordare lo scoop sull’inchiesta che riguarda i vertici vecchi e nuovi dell’Eni (che tanto ha fatto infuriare il premier e diversi osservatori). E’ poi diventato un caso politico la scudisciata di de BortoliMatteo Renzi, seguita da qualche mea culpa su altre questioni nel corso della presentazione del libro di Marco Follini (qui resoconto e spunti). E ha fatto discutere anche il commento della firma di punta del Corriere, Pierluigi Battista, che ha bacchettato il socio Rcs, Diego Della Valle, per la sua frenetica voglia di darsi alla politica, confermata e anzi certificata nel corso della trasmissione Servizio Pubblico di Michele Santoro (anche se ci si chiede: con chi balla Della Valle?, qui un articolo di ricostruzione e di indiscrezioni).

E forse proprio sulla scia dei mea culpa – ad esempio sulle privatizzazioni – sussurrati da de Bortoli durante la presentazione del libro di Follini (e colti dal collega Edoardo Petti su Formiche.net), s’inserisce l’editoriale di prima pagina del Corriere della Sera di oggi firmato da Daniele Manca.

Il succo dell’editoriale? Il tramonto della vecchia Mediobanca e il ruolo sempre più strategico per l’Italia della statale Cassa depositi e prestiti è “il segno più evidente – conclude il Corriere – della sconfitta di quell’idea che negli Anni 90 anche in Italia si era fatta strada alimentando la speranza che privati e imprenditori potessero essere partecipi e protagonisti della svolta liberale e di mercato in questo Paese. È la resa, si spera non definitiva, alla sempre più forte presenza dello Stato nell’economia”.

Non si giunge a constatare che quel visionario di Giulio Tremonti forse ci aveva azzeccato nel ridestare il “gigante addormentato” della Cdp, ora presieduta da Franco Bassanini e guidata dall’ad, Giovanni Gorno Tempini, ma le sorprese di de Bortoli magari non sono finite…

Nel frattempo Formiche.net proseguirà il suo viaggio tra i poteri forti o presunti tali…

Ecco di seguito l’editoriale integrale di Daniele Manca sulla prima pagina del Corriere della Sera:

C’era una volta Mediobanca. Per decenni è stato il perno attorno al quale si è costruita gran parte delle strategie dei grandi gruppi italiani. Nel post miracolo economico la personalità di Enrico Cuccia ha influenzato scelte e azioni di un lungo elenco di società, da Fiat a Edison, determinanti per lo sviluppo di interi settori industriali nazionali.

Con le privatizzazioni degli anni Novanta, oltre alle sempre presenti Generali, l’influenza è andata estendendosi a gruppi come Telecom, la stessa Rcs che pubblica il Corriere, fino alle grandi battaglie sul credito, che l’hanno vista perdente e che hanno portato, con l’arrivo delle fondazioni pubbliche, alla nascita dei due grandi gruppi bancari Intesa e Unicredito. 

Anno dopo anno, ed è cronaca di queste settimane, si è assistito alla riduzione del peso delle partecipazioni detenute da Mediobanca nei gruppi italiani. Fino a diventare essa stessa oggetto di possibili scalate. La fine di una centralità per molti da salutare come positiva, come una predominanza del mercato che finalmente anche in Italia iniziava a far sentire la sua voce.

Non è andata così. Anzi, quello che sta accadendo oggi è che alla ritirata, precisa strategia o mancanza di essa?, non è corrisposto il passaggio di consegne ad altri azionisti, altri imprenditori o investitori istituzionali (in Italia merce rara) pronti a prenderne eredità e responsabilità. 

Telecom Italia è lì a dimostrarlo. Qualsiasi possano essere le idee e le strategie messe in atto dal management, si ritrova a essere di fatto e ancora una volta una società in cerca di azionisti disposti a sostenerne il futuro.

F inita l’avventura Telco, la scatola costituita dai signori del credito italiano, da Mediobanca a Intesa a Generali, è diventata terra di scorribande prima di investitori spagnoli indebitati più di Telecom stessa (Telefonica), oggi di industriali e finanzieri francesi come Vincent Bolloré, abili a giocare su più tavoli (Mediobanca compresa). Fino a ipotesi fantasiose legate a quelle di manager dal passato «intenso», come Sol Trujillo. 

Il risultato è che a essere tirata per la giacchetta dovrebbe essere l’onnipresente Cassa depositi e prestiti che, attraverso l’amministrazione dei risparmi degli italiani consegnati alle Poste, dovrebbe trovare i soldi per tentare di disegnare un domani sicuro se non a Telecom almeno alle telecomunicazioni italiane. A quella società, che dalla scalata dei capitani coraggiosi che l’avevano caricata di debiti non si è mai più ripresa, è legata gran parte anche della nostra competitività. Le vicende Telecom non sono affatto estranee alla condizione tutta nazionale di una Internet veloce che da noi resta ancora in gran parte del territorio un sogno. 

Dovremmo però dirci con estrema chiarezza che qualsiasi idea di grande gruppo italiano, qualsiasi speranza di avere una politica industriale in Italia, passa per la super pubblica Cassa depositi e prestiti. Nelle sue casseforti sono custodite le partecipazioni che permettono al Tesoro di controllare di fatto Eni, Enel, Snam, Terna oltre a innumerevoli altre società attraverso il Fondo strategico che è andato affiancandosi ai privati, sempre a sua volta costituito dalla Cassa. 

È il segno più evidente della sconfitta di quell’idea che negli Anni 90 anche in Italia si era fatta strada alimentando la speranza che privati e imprenditori potessero essere partecipi e protagonisti della svolta liberale e di mercato in questo Paese. È la resa, si spera non definitiva, alla sempre più forte presenza dello Stato nell’economia. 

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