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Il fantasma di Falcone

Il fantasma di Giovanni Falcone è tornato ad aleggiare negli uffici e nelle aule giudiziarie di Palermo, dove il magistrato più famoso ed eroico nella lotta alla mafia, aveva incontrato non poche difficoltà a lavorare per le invidie e le manovre di tanti colleghi. Fu proprio per sottrarvisi che egli si trasferì a Roma accettando l’incarico direttivo offertogli al Ministero della Giustizia dall’allora guardasigilli socialista Claudio Martelli. Si trattò del suo ultimo lavoro, troncato il 23 maggio 1992 dall’attentato di Capaci, che costò la vita anche alla moglie e a quasi tutta la scorta.

Il fantasma di Falcone è in qualche modo ricomparso domenica con una intervista di un magistrato, Giuseppe Di Lello, che fu giudice istruttore dei processi storici alla mafia scaturiti dalle indagini rigorose proprio di Falcone. Una intervista alla Stampa nella quale Di Lello ha impietosamente attribuito “un impianto giornalistico che da un punto di vista tecnico giuridico non regge” al processo in corso a Palermo sulla presunta trattativa fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra nella stagione delle stragi di mafia.

Pronunciato da Di Lello, abituato alle investigazioni di Falcone, il giudizio è di un clamore pari all’autorevolezza. Un giudizio completato con la denuncia del carattere a dir poco discutibile della testimonianza imposta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che nel processo è finito “bersaglio – ha detto ancora Di Lello – di una compagnia di giro composto da professionisti dello spettacolo, del mondo editoriale e anche di magistrati che pensano di essere depositari ed eredi esclusivi di una tragica e nello stesso tempo esaltante stagione della vita della nostra Repubblica”.

Il caso – o solo il caso? – ha voluto che alla sferzante sortita di Di Lello, quando mancano quasi due settimane alla deposizione giudiziaria di Napolitano nel palazzo del Quirinale, sia seguita nelle stanze dello stesso Quirinale la cerimonia di consegna alla sorella di Falcone, Maria,  dell’onorificenza di Grande Ufficiale al merito della Repubblica. Una cerimonia nella quale Napolitano ha voluto ricordare, e al tempo stesso ammonire, che “la lotta contro la mafia si fa come faceva Giovanni”.

Mettete le parole di Napolitano accanto a quelle di Di Lello a commento del processo in corso a Palermo e fate pure il conto, logico e politico, di tutta la vicenda giudiziaria della presunta trattativa.

Invitata proprio in occasione della cerimonia quirinalizia dell’onorificenza a commentare l’intervista di De Lello, Maria Falcone ha ricordato che  lui “lavorava molto bene con Giovanni”. E, pur precisando che non avrebbe usato “i suoi termini”, ne ha in fondo condiviso le critiche al processo in corso, e alle indagini che lo hanno proceduto. Le ha condivise, in particolare, indicando come esempio – al pari di Napolitano – il metodo di lavoro del fratello. Il metodo della ricerca di “tutti i riscontri” degli elementi raccolti dagli inquirenti alle prese con pentiti ed altri.

La sorella di Falcone è peraltro la stessa alla quale si riferì il 18 giugno 1992 l’allora consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, nella lettera di dimissioni scritta a Napolitano di fronte alle polemiche che lo avevano investito per l’ascolto dato alle proteste di Nicola Mancino a proposito delle indagini di Palermo. Che avevano investito per falsa testimonianza l’ex ministro democristiano dell’Interno, nonché ex presidente del Senato ed ex vice presidente  dello stesso Napolitano al Consiglio Superiore della Magistratura.

D’Ambrosio, che sarebbe morto di crepacuore dopo poco più di un mese, nonostante Napolitano si fosse affrettato a respingerne le dimissioni e a confermargli la più piena fiducia, ricordò al capo dello Stato – “Lei sa” – di avere “anche di recente scritto su richiesta di Maria Falcone” del proprio lavoro svolto al Ministero della Giustizia nella stagione delle stragi di mafia. Un lavoro probabilmente entrato sotto le lenti di ingrandimento degli inquirenti di Palermo e dal quale il povero D’Ambrosio aveva ricavato “il timore” che potesse emergere “l’ipotesi, solo ipotesi” di un ruolo da lui svolto di “ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.

Si sa, avendolo egli già scritto ai giudici, che Napolitano non ha nulla da chiarire o da aggiungere a quella lettera, ma lo si è voluto ugualmente chiamare a testimoniare in un processo che si stenta sempre di più a distinguere dal film che ne ha ricavato Sabina Guzzanti. Un processo anche al morto D’Ambrosio, cui forse gli inquirenti non perdonano i giudizi espressi nei loro riguardi nella lettera del 1992 al presidente della Repubblica. Una lettera nella quale si reclamava “l’abiura di approcci disinvolti, non di rado più attenti agli effetti mediatici che alla finalità di giustizia”.

Francesco Damato



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