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Lama, Cofferati e Camusso. Due chiacchiere sulla Cgil del passato e del presente

Non ci crederete ma quassù è arrivata un’eco delle grida dei manifestanti raccolti a Roma dalla segretaria generale della Cgil Susanna Camusso e altri compagni contro il governo, la riforma del lavoro, l’abolizione dell’articolo 18 sui licenziamenti e via dicendo. Un’eco labile, in verità, data la distanza, e non solo il tono dei dimostranti. Ma sufficiente perché la buon’anima di Luciano Lama, accostatosi a me sulla nuvoletta dove mi ero appena accomodato, si portasse le mani sulle orecchie e facesse una smorfia di disapprovazione. Ma che roba è, si chiedeva incredulo il poveretto, che quassù ha perso anche l’abitudine di fumare la pipa perché, tanto, non gli serve più né ad avvertirne il sapore né a darsi del tono. Qui le cose sono diverse da laggiù.

Eppure – gli ho detto – dovresti essere contento per la gente che ancora riesce a raccogliere e a portare nelle strade e nelle piazze la tua Cgil, adesso peraltro a direzione femminile. E chi ti dice – mi ha risposto e chiesto nello stesso tempo – che riempire le strade e le piazze serva a raggiungere gli obbiettivi che ci si propone? Anch’io riempii strade e piazze nel 1985 per un referendum, quello contro il decreto per la riduzione della scala mobile, che neppure avevo personalmente voluto, ma che avevo dovuto promuovere per obbedienza al partito. Che lo aveva prima minacciato con Enrico Berlinguer e poi reclamato con Alessandro Natta per rompere le reni – dicevano – a Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio. Finì che le prendemmo nelle urne di santa ragione, soprattutto nelle zone dove gli operai erano più numerosi, e più si aspettavano di vincere i soloni delle Botteghe Oscure.

Uno dei pochi posti in cui riuscimmo a vincere, mio malgrado, fu – mi ha raccontato Lama – un paesino dell’Irpinia chiamato Nusco, i cui abitanti seguirono le direttive e l’esempio del loro cittadino più illustre: Ciriaco De Mita, che era il segretario della Dc e, pur alleato di Craxi al governo, ne desiderava la sconfitta come, anzi più ancora dei miei compagni e dirigenti di partito. Roba da pazzi.

Ma perché – gli ho chiesto – accettasti di promuovere e guidare un referendum che non volevi? E lui mi ha spiegato: perché quelli erano tempi in cui la Cgil era la cinghia di trasmissione del partito comunista, ne seguiva indicazioni e ordini. Prima di me era capitato addirittura a Giuseppe Di Vittorio, un compagno storico, di autorevolezza assoluta, di piegarsi al partito facendo autocritica dopo avere dissentito dalla decisione di condividere l’invasione sovietica dell’Ungheria. Come potevo io fare diversamente nella vicenda della scala mobile, tagliata di pochi punti per fermare un’inflazione che divorava letteralmente il valore reale dei salari?

Poi, in verità, le cose sembrarono cambiare, mi ha raccontato Lama. Costretto a mutare nome e simbolo per la caduta del comunismo sotto il muro di Berlino, il partito perse un po’ di forza e, anzichè dettarle la linea, si lasciò indirizzare dalla Cgil. Accadde, in particolare, con il mio compagno Sergio Cofferati, che mise in riga Massimo D’Alema, che pure era riuscito, con la sua storia, a diventare persino presidente del Consiglio. Adesso però è tutto cambiato daccapo.

In che senso? La povera Camusso, benedetta donna, non potendo dettare niente al partito, finito sotto la guida di uno come Matteo Renzi, che è una specie di Craxi moltiplicato per tre, si è ridotta – mi ha detto Lama – a fare da sponda a quella esigua e divisa minoranza che lo contesta. E offre a questa minoranza cortei e grida semplicemente inutili. O utili solo a Renzi per apparire ancora più innovatore, riformatore e coraggioso di quanto forse non sia. E per fare spalancare allegramente alla Cgil le porte delle caverne. Ah, povera Cgil. Da quassù posso solo vedere dove sta andando. Non posso certo fermarla. Non potetti farlo da vivo e da segretario nel 1985, figuriamoci adesso, da morto.

Ghino di Tacco



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