La Cina intensifica la strategia di penetrazione nei gangli nevralgici dell’economia italiana. Prima l’ingresso in Eni ed Enel. Poi l’acquisizione del 35 per cento di Cdp Reti (ovvero Snam e Terna) a opera di State Grid. Ad agosto il rafforzamento delle partecipazioni azionarie in Telecom Italia, Prysmian, Fiat e Generali.
Adesso il salto di qualità in quello che per lungo tempo ha costituito il “tempio laico” della finanza nazionale. La Consob ha comunicato che la Banca centrale della Repubblica Popolare possiede dal 14 ottobre il 2,001% di Mediobanca.
Gli investimenti realizzati da Pechino in imprese quotate nella Borsa di Milano vengono stimati tra i 7 e gli 8 miliardi di euro. Per capire i riflessi e le implicazioni di una presenza sempre più massiccia nel nostro tessuto produttivo Formiche.net ha interpellato Giandomenico Piluso, professore di Storia dell’economia all’Università di Siena, autore di saggi sull’istituto di Piazzetta Cuccia tra cui “Mediobanca- Tra regole e mercato” edito da Egea.
L’ingresso di Bank of China inciderà sulla governance e sulle strategie di Mediobanca?
Non penso che l’acquisizione del 2 per cento da parte della Banca centrale cinese produrrà effetti sulla struttura proprietaria e sulla gestione dell’istituto finanziario Ritengo si tratti della conseguenza della politica promossa dallo stesso management di Mediobanca. Peraltro nessuna frizione o reazione critica ha accolto la notizia. Evinco che è stata una scelta concordata, forse ricercata con l’adesione di tutti gli azionisti. Parlerei di un’opportunità che si è presentata ed è stata colta in modo lungimirante.
Lungimirante? Siamo sicuri?
Sì. Perché rafforza la strategia di internazionalizzazione perseguita da tempo dall’amministratore delegato Alberto Nagel e dal presidente Renato Pagliaro. E conferma che puntare su più ricavi e soci all’estero può funzionare. È stata messa in atto una linea di “normalizzazione” rispetto alla Mediobanca guidata da Enrico Cuccia. Fondata sui legami, gli intrecci, le partecipazioni incrociate del capitalismo industriale e creditizio italiano. Riaffermando l’autonomia della governance, gli attuali vertici dell’istituto hanno realizzato un’iniziativa esemplare per tutte le banche del nostro paese.
Quale?
Proiettarsi oltre confine nella ricerca di capitali, visto che l’economia nazionale non cresce da ormai vent’anni.
Le partecipazioni industriali e bancarie di Mediobanca risentiranno dell’entrata del socio asiatico?
I vertici dell’istituto hanno già dichiarato che ridurranno la presenza in alcune grandi imprese italiane: Telco, Rcs e soprattutto Generali. Grazie alla stagione delle liberalizzazioni e privatizzazioni degli anni Novanta, tutto è cambiato. E i manager di Mediobanca hanno capito che era necessario creare una realtà creditizie tra le tante, in grado di utilizzare a buon fine la reputazione e le relazioni acquisite nel tempo.
Non è la prima volta che fondi sovrani entrano nel capitale di realtà industriali italiane. Qual è la differenza rispetto al passato?
Estendere a un Paese come la Cina la proiezione internazionale grazie a una partecipazione di minoranza della sua Banca centrale produce molti vantaggi. Permette di reperire risorse, di accedere al mercato asiatico, di contare su una platea di azionisti con un peso più ampio. E costituisce una preziosa opportunità.
Per quale ragione?
Bank of China non è un fondo sovrano vero e proprio. È un istituto creditizio che realizza investimenti con finalità patrimoniali, per un ritorno in termini di reddito. La sua entrata in Mediobanca manifesta e conferma un’apertura di interesse per iniziative rilevanti di imprese orientali in Italia. E allo stesso tempo crea per l’istituto di Piazzetta Cuccia un canale di accesso al mercato cinese. Ricco di capitali con cui la banca potrebbe finanziare lo sviluppo industriale in Europa.
Ma non vi è il rischio che l’Italia si trasformi in una “colonia cinese”?
L’economia reale è un campo di gioco portatore di interessi politici nazionali, che rispondono a esigenze di crescita e riduzione di gap tecnologici. Non elogerei la “divinità mercato” composta da gruppi neutri guidati solo dalla logica di profitto. La Cina ha sempre badato a offrire opportunità a imprenditori esteri, vincolandole al proprio sviluppo economico. E ha seguito tale principio nel resto del mondo. Entrando come investitore in comparti ritenuti strategici per acquisire tecnologia e entrare in un “sistema Paese”.