Da Occupy Wall Street a Block Bce. I movimenti di contestazione nati sulla scia della crisi economica sono tutt’altro che sopiti. Lo hanno ricordato gli striscioni e le contestazioni che giovedì scorso hanno “accolto” a Napoli la riunione del board direttivo della Banca centrale europea. «Precarietà povertà disoccupazione speculazione. Liberiamoci della Bce», recitava uno slogan. La protesta, hanno indicato gli stessi attivisti, arriva da «studenti costretti a studiare in scuole che cadono a pezzi, universitari costretti a lavorare in nero e sottopagati per mantenersi agli studi, disoccupati senza reddito, lavoratori che stanno perdendo le ultime garanzie».
«Gli occupy movement e le idee alla base non riguardano più solo gli strati meno acculturati della società, ma ormai sono sempre più diffusi tra i ragazzi della mia generazione e tra i giovani più educati e preparati. E sono tutt’altro che movimenti destinati a estinguersi, ma aumenteranno», ha rilevato François Maon, trentaduenne professore associato di Strategia e Csr della Ieseg School of management di Lille intervenendo al decimo Forum annuale sulla Business Ethics e la Responsabilità sociale d’impresa, organizzato da Politeia, l’Università di Milano, lo Ieseg Center for Organizational Responsibility, la Fondazione Eni Enrico Mattei e il Global Compact network in Italy Foundation.
Per Maon questi movimenti indicano l’urgenza di riconsiderare il legame tra le aziende e la società. Attenzione. Sotto accusa non è il capitalismo in sé, ma il ruolo culturale e politico che, soprattutto le grandi corporation, esercitano all’interno della società e dell’economia. «Se guardiamo alle reali motivazioni alla base di questi movimenti, ai primi posti non c’è il capitalismo come sistema, ma la disuguaglianza insieme all’influenza e all’avidità delle corporation, si tratta di una autentica e variegata insofferenza nei confronti delle grandi corporation», ha spiegato Maon snocciolando alcune percentuali indicative: il 73% degli americani ritiene, per esempio, che il governo è dalla parte delle grandi corporation e non dei cittadini; a Bruxelles esiste un lobbista per ogni dipendente Ue; e l’aumento delle disuguaglianze è il primo rischio per la stabilità individuato dalle organizzazioni internazionali.
Disuguaglianza che conduce alla perdita di speranza. E’ questo per il guru Edward Freeman, l’autore della famosa teoria degli stakeholder, il principale rischio da cui guardarsi. «Ciò che più mi preoccupa è la perdita di speranza che colpisce, per esempio, chi perde il lavoro», ha detto intervenendo al convegno che quest’anno si è concentrato sullo scopo della Corporation (“Back to basics: what is the purpose of the corporation?”). Freeman, professore di management strategico all’Università della Virginia, è la figura di riferimento per tutto il mondo della Responsabilità sociale d’impresa. Nel 1984 ha rivoluzionato le teorie sull’impresa con il suo lavoro “Strategic Management: a stakeholder approach” (ripubblicato nel 2010) in cui sposta il focus dagli shareholder (azionisti) agli stakeholder (portatori di interesse nell’impresa, come dipendenti, territorio, clienti, fornitori, etc.), ossia i reali soggetti che permettono l’esistenza e il successo dell’impresa. Sulla base della teoria degli stakeholder, l’azienda deve costruire la propria strategia mettendo al centro non il dovere fiduciario nei confronti degli azionisti, ma tutte le relazioni con i vari stakheolder (tra cui certamente anche gli azionisti). In altre parole, l’azienda è il migliore esempio di cooperazione possibile. «Il capitalismo è il più grande sistema di cooperazione sociale che abbiamo mai inventato. Perché si basa su come noi insieme creiamo valore e produciamo cose, quello che lo fa funzionare è il desiderio di cooperazione, di creare valore insieme», ha rilevato Freeman nel suo intervento “The answer of stakeholder Theory” spiegando che «l’idea soprattutto americana che gli azionisti posseggano l’impresa è semplicemente un errore, uno stato mitologico, le aziende si auto-posseggono. C’è una chiara discrepanza tra la teoria che gli azionisti possiedono l’azienda e quello che realmente serve per far funzionare un’impresa di successo».
Al centro di tutto ci sono i concetti di “purpose” (scopo) e “value” (valore). «L’idea che l’imprenditore inizia un business per fare soldi è sbagliata – spiega Freeman –. Conosco un sacco di imprenditori e nessuno di questi ha iniziato il business per questo. E’ semplicemente troppo faticoso. Se l’unico motivo è fare soldi, allora trovarsi un lavoro è più facile. L’unico posto dove si inizia a fare business per fare soldi sono le aule delle business school. Nel mondo reale, questi imprenditori hanno iniziato perché hanno uno scopo. Quindi c’è una discrepanza tra la teoria dei soldi e dei profitti, e quello che serve per far funzionare un’azienda di successo, ossia qualcuno con uno scopo, una visione, qualcuno che lotta per un’idea». In altri termini, introdurre nel business il concetto di “scopo” fa capire come un’azienda funziona realmente. E ci fa abbandonare anche la vecchia logica per cui gli uomini sarebbero egoisti e agirebbero solo per il proprio bene. «Basare un’azienda sulla frase: se fai questo ottieni questo, ossia sullo schema premio/punizione, fa semplicemente scendere le performance e i profitti», fa notare Freeman. Già perché gli esseri umani sono ben più complicati. «Se li tratti con il bastone e la carota – continua Freeman – inizieranno a cercare la carota ed evitare il bastone. Al contrario, fare qualcosa per uno scopo, essere parte di qualcosa, è una motivazione molto più forte di fare qualcosa perché si ricevono soldi». E’ la complessità che fa funzionare il capitalismo: tutti gli stakeholder sono tra loro strettamente legati e per far funzionare un’azienda di successo è necessario tenere tutti questi interessi in armonia. Ecco perché è sbagliata l’idea che business ed etica non possano andare insieme. «Mettere business ed etica insieme – afferma Freeman – è parte di questa rivoluzione Copernicana».
Una rivoluzione che passa attraverso importanti interrogativi su cui, ha concluso Freeman, si concentrerà il futuro dibattito. Come pensiamo alle performance totali delle corporation se i profitti non sono in grado di misurarle? Come pensiamo al sistema della rendicontazione se inseriamo gli stakeholder per evitare i problemi di conflitti emersi con la separazione tra social accounting e financial accounting? Senza dimenticarci che le responsabilità non vanno solo dall’azienda ai suoi stakeholder. Ma anche dagli stakeholder all’azienda.