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Le Regioni sono il vero bubbone italiano

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’intervista di Goffredo Pistelli a Fabrizio Rondolino apparsa su Italia Oggi.

Il grido di dolore delle Regioni s’è levato alto, appena dalle slide di Palazzo Chigi s’è capito che anche a loro sarebbe toccata una cospicua fetta di taglio. Impossibile, hanno risposto «come un sol uomo» i governatori, se non tagliando i servizi essenziali, dal trasporto locale alla sanità.

La vicenda ha, se non altro, il merito di obbligare tutti a guardare i meccanismi con cui i governi regionali spendono i soldi di tutti. Meccanismi che dall’istituzione, nel 1970, ha visto questi enti mutare sostanzialmente di ruolo. Silvio Boccalatte, di Chiavari (Ge), classe 1979, avvocato, è uno studioso del Istituto Bruno Leoni, vivace think tank liberale, e se ne occupa da alcuni anni.

Boccalatte, le regioni sono centri di spesa enormi.

Scontano un problema strutturale, di attuazione. Nell’impalcatura originaria, dovevano invece essere istituzioni snellissime. Enti con potestà legislativa, punto. In pratica dei parlamenti locali. Anche se quando talune regioni intesero chiamare «parlamento» la propria assemblea legislativa regionale, la Consulta bocciò la cosa ricordando che il concetto di «Parlamento” deve riferirsi solo a quello nazionale.

Snelle alle origini, e invece?

E invece le cose cominciano a cambiare sin dal 1977, con i grandi decreti di delega che affidano alle regioni molte competenze amministrative.

Non ancora con la sanità?

No, verrà dopo, dal 1978 e poi, soprattutto, negli anni ’90. No, si cominciò con molte funzioni relative al controllo del territorio, ripartite poi, o spesso rimpallate, fra comuni, province e regioni appunto.

Che cosa ha significato?

In pratica, non potendo conferire ulteriori competenze legislative rispetto a quelle, molto limitate, previste nell’originario testo dell’articolo 117 della Costituzione, perché ciò avrebbe comportato una modifica costituzionale, si pensò di delegare competenze amministrative e di controllo.

Stiamo parlando della tutela del paesaggio, dell’urbanistica, dei vari piani del territorio?

Sì, quelle materie sono un buon esempio. Controllo sovraordinato della pianificazione territoriale.

Non era così che doveva essere.

Esatto. Le Regioni avrebbero dovuto fare solo leggi, lasciandone l’applicazione a Province e Comuni . Agire diversamente ha significato una comprensibile moltiplicazione degli uffici.

Ma perché operare così, surrettiziamente diciamo?

Perché allora la Costituzione era più totem di oggi: intoccabile. E il bypass del conferimento di funzioni mediante decreto delegato rimediava, in qualche modo.

Poi, arrivano altri poteri.

Certo, ci sarà negli anni ’90 il decentramento delle leggi Bassanini, la sanità che citavo prima e poi finalmente, nel 2001, la modifica dell’articolo 117. Con questa riforma molte altre materie, definite a competenza legislativa concorrente o residuale sono state attribuite alla competenza delle regioni. Peraltro, teoricamente, nelle materie a competenza legislativa residuale la potestà legislativa delle regioni dovrebbe considerarsi particolarmente ampia.

Ma quindi si è registrato un significativo aumento delle competenze non solo amministrative, ma anche legislative regionali, a partire dagli anni Settanta e ancor più negli ultimi quindici anni?

Sì, certo, anche se la Consulta, a cui si sono spesso rivolte le Regioni sulla legislazione concorrente, soprattutto fra il 2003 e il 2006, ha spesso manifestato un orientamento tendenzialmente favorevole alla limitazione della loro potestà legislativa.

Insomma regioni affamate di competenze, sin dalla loro nascita effettiva e anche dopo.

Sì, il nodo sta essenzialmente qui. Perché per fare norme servono soldi e amministrazione dei soldi.

Spieghiamolo bene…

Le Regioni hanno acquisito una capacità di spesa enorme, e non parlo solo di sanità, ci sono quelle che, utilizzando in modo molto estensivo l’articolo 117, sono attive nella protezione sociale e in mille altre attività, anche di promozione turistica ed economica. La loro possibilità di manipolare le entrate è, per contro, ridottissima. L’Irap, per esempio, pur ripartendo il gettito fra Stato e Regioni, assegna a quest’ultime margini limitatissimi di manovra sulle aliquote e il divieto di operare sulle basi imponibili. Idem per l’Irpef.

Paradossale.

Sì, se si considera che, da un lato, come nella sanità, la regione può spendere nella sostanziale certezza che lo Stato centrale interverrà a tappare i buchi, dall’altro è di fatto irresponsabile sul livello delle entrate. Anzi c’è un incentivo alla spesa.

In che senso?

Nel senso che il politico regionale mette la faccia sulla spesa, nel mostrare che fa, che rende prestazioni, tanto il buco che farà sarà affare di chi viene dopo di lui e comunque di Roma.

Un sistema mostruoso…

Infatti, dobbiamo rivedere il sistema tributario, dando anche alle regioni una libertà più ampia di plasmare tributi propri, in modo che all’autonomia di spesa corrisponda un’autonomia gestione dell’entrata.

Non sarebbe peggio?

No, perché avremmo una classe politica che, sapendo che lo Stato non ripiana più, dovrà giustificare le sue scelte. E dunque, caro governatore, vuoi aprire un aeroporto in più dove non serve? Questa struttura, totalmente inutile, aprirà una voragine nei tuoi conti? Follia pura, ma dovrai trovarti le risorse: Roma non provvede più.

Le Regioni ora che sono costrette a tagliare dal governo di Matteo Renzi opporranno questi argomenti: abbiamo le entrate bloccate.

Più o meno. Diranno: mi tagliate un miliardo quando posso recuperare solo 700 milioni dalle manovre sulle addizionali, ergo darò 300 milioni di servizi in meno. Ma sarà falso.

Perché l’autonomia di spesa ce l’hanno.

Esatto. E dovranno spiegare ai cittadini perché aumenteranno l’addizionale Irpef o l’aliquota base Irap, anziché chiudere questa o quella partecipata inutile; anziché sponsorizzare festival e feste ovunque. Anche perché prima o poi in quelle regioni si voterà.

Le partecipate regionali sono un mondo a sé, quasi inesplorabile.

Non lo dica a me. Qualche hanno fa, ho provato a studiare quelle liguri, ho analizzato quattro casse di materiali e mi sono trovato davanti a un giungla vera e propria. In genere, poi, si usano società di diritto privato ma a capitale pubblico, che quindi sottostanno a regole meno cogenti sulla spesa, ma operano sempre nell’interesse dell’unico azionista, che è politico.

Una voce importante della spesa regionale è quella sanitaria, su cui si minaccia di tagliare.

Una situazione esemplare.

In che senso?

Teoricamente le Asl dovrebbero redigere bilanci secondo i principi civilistici, cioè con stato patrimoniale e conto economico.

E invece?

Invece indicano, fra le poste di bilancio, voci che, per una qualsiasi società per azioni, sarebbero inconcepibili. Per esempio, quando si erogano prestazioni, si registrano comunque dei ricavi figurativi: in altri termini, anche se non entra in cassa niente l’Asl annota il valore della prestazione secondo il valore della tariffa «drg» (diagnostic related group), cioè del «valore» di quella prestazione secondo il tariffario.

E il bilancio è sempre in pareggio.

Sì, ma c’è un buco che posso non vedere mai. E non riesco a capire l’efficienza di un sistema.

Ci sarebbe un’alternativa?

Certo. Rimuovere l’anomalia e cioè che la Regione sia, al tempo stesso, il nostro assicuratore contro le malattie e anche il nostro prestatore di cure. Meglio un sistema in cui la Regione, assicuratore, paga e la Asl valuta – sotto un profilo meramente tecnico-scientifico – quali soggetti, pubblici e privati, abbiano i requisiti per offrire quei servizi. E noi, gli assicurati, scegliere dove andare.

Cosa cambierebbe?

Scopriremmo ospedali pubblici in grande attivo ma altri da chiudere all’istante perché insostenibili. Occorre rompere il conflitto di interessi fra controllato e controllore. Ma il sistema è bacato a livello legislativo.

In che senso?

Nel senso che le Regioni possono decidere loro se l’offerta di prestazioni sanitarie, in un determinato territorio, sia congrua o meno rispetto alla domanda: se reputano che lo sia, non convenzionano più altre strutture sanitarie private, in questo modo bloccando e impedendo la concorrenza. Ma ne va anche del diritto alla salute.

Comprensibilmente…

Perché decidere della congruità, significa anche valutare che magari le liste d’attesa di mesi, in fondo, sono accettabili. E se uno, per ragioni di salute, non potesse aspettare: dovrà rivolgersi al privato, a pagamento, pur contribuendo già, con le tasse, al servizio sanitario nazionale.

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