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Tutti gli effetti della sofferenza delle Pmi italiane

produzione industriale

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

La situazione è tutt’altro che allegra, come sempre quando si parla, oggi, di PMI in Italia.

Dal 2008 al 2012, negli anni della Seconda Grande Depressione, come l’ha chiamata recentemente Paul Krugman, la produzione di macchine utensili in Italia si è semplicemente dimezzata: dai 4 miliardi di Euro di fatturato pre-crisi siamo passati a pochissimo di più di 2.

Nello stesso periodo, le consegne di macchine utensili ai clienti italiani si sono ridotte del 42%, gli importatori hanno ridotto gli ordini del 13% e, quindi, l’invecchiamento industriale, per motivi di scarsa liquidità, ha mantenuto in produzione macchinari vecchi, meno competitivi, e con minore capacità di generare valore aggiunto per unità di prodotto.

Secondo alcuni analisti, però, quest’anno dovrebbe segnare l’inversione di tendenza, con un +4,2% che dovrebbe poi aumentare sensibilmente negli anni successivi.

Se è vero, come è sempre più evidente, che non possiamo vivere di sole esportazioni, comprimendo il mercato interno, è anche vero che solo se stimoliamo la produzione delle macchine industriali potremo avere migliore produttività, una produzione di beni secondari sostenibile sul piano ecologico e economico, e potremo inoltre mantenere l’esercito di vecchi che si staglia all’orizzonte del nostro sistema pensionistico.

Se non si aumenta la produttività media, potremo solo sognarcelo il mantenimento degli attuali standard di assistenza nella sanità e nel sistema di assicurazioni sociali per la vecchiaia.

La Cina è, secondo tutti gli analisti, cresciuta molto anche in questo settore, ed è dal 2008 che USA e UE hanno perso l’abbrivio, la leadership della crescita nei confronti di Pechino e, in subordine, dei nuovi Paesi che non sono più, come si usava dire con una pietosa bugia da banchiere internazionale, “in via di sviluppo”.

Ma, trattandosi di un settore, quello delle macchine utensili, che è storico nell’assetto produttivo italiano, le PMI di settore hanno sì contratto gli ordini, seguendo peraltro un trend globale, ma hanno mantenuto gran parte delle posizioni sul mercato-mondo: abbiamo recuperato la quarta posizione globale, superando di un soffio la Corea del Sud, ma l’export su produzione si è attestato ad un elevatissimo 74,5%, mentre le macchine utensili importate sono ormai, dati del 2013, al 46% del mercato interno, cifra pericolosissima perché, come è facile immaginare, si importa non solo la macchina che produce, ma il prodotto e la sua tecnologia.

E quindi si gioca in casa, con fattori di produzione sfavorevolmente combinati tra loro, allo stesso gioco di Paesi che hanno una composizione dei fattori produttivi ben più favorevole della nostra.

Da quando non è possibile svalutare in modo competitivo, e c’è da ricordare qui il pessimismo di Paolo Baffi, che non pensava che le imprese italiane si sarebbero abituate a fare a meno delle svalutazioni competitive della lira, si svalutano o si rivalutano i fattori di produzione, e le economie dell’area Euro si fanno concorrenza non con le loro vecchie e differenziate monete, ma con le loro formule produttive, i loro debiti pubblici, la loro capacità di finanziarsi sul mercato internazionale, la loro abilità nel proteggere la proprietà intellettuale, i brevetti, e magari la malizia nel carpirne ad altri. Così fan tutti, peraltro.

Quando si trattata di entrare nell’Euro senza averne davvero i titoli, ricordiamolo, e qui vi narro un piccolo segreto, ci fu un gruppo di dirigenti dello Stato, di imprenditori e di banchieri italiani che, all’ombra di un noto Centro Studi, immaginò una “Operazione Sansone” per svalutare di molto la lira, overnight, se non si fosse entrati nell’Euro, bruciando in pochissimo tempo il vantaggio comparativo della nuova divisa europea.

Ho il forte sospetto che la cosa arrivò alle orecchie dei tedeschi, e infatti molte telefonate notturne, da parte dell’establishment economico tedesco, tormentavano l’ancora scettico Helmut Kohl, e lo indussero a far entrare l’Italia nella primissima fase della moneta unica europea, per evitare il “bagno” del nuovo Euro a guida tedesca sui mercati internazionali.

La demonetizzazione della concorrenza non l’abbiamo ancora capita bene, in Italia, e certamente non l’hanno ben percepita i vari governi di entrambi gli schieramenti, che ancora si baloccano con le cifre dei bilanci pubblici, mentre qui occorre destinare alla concorrenza globale tutta la società italiana, le sue istituzioni, scuole, università, aziende piccole e grandi. Per non parlare delle banche.

Comunque, secondo gli esperti del settore PMI delle macchine utensili, la produzione dovrebbe salire, alla fine di quest’anno, del 4,4% con il raggiungimento previsto di un fatturato di 4685 milioni di Euro.

Il mercato interno delle macchine che producono macchine dovrebbe salire anch’esso, sia in questa fine di anno 2014 che nei prossimi, lo abbiamo già visto, di una cifra non trascurabile, il 3,4%.

Interessante la analisi dei mercati dell’export PMI delle macchine utensili: il primo Cliente è la Cina, poi gli Stati Uniti, in fase di ripresa congiunturale della propria produttività manifatturiera, poi la alleata e concorrente Germania, un altro paese UE export driven che copre alcuni dei nostri mercati primari all’estero, e poi la Russia, la Francia, il Brasile, un export delle macchine utensili italiane che spazia dai vecchi campioni globali del manifatturiero alle nuove nazioni dei fin troppo famosi BRICs.

Ma la Germania, secondo gli ultimi dati, manifesta un incremento degli acquisti di macchine utensili italiane perfino maggiore di quello cinese, il che è un segno importantissimo di vitalità della nostra formula produttiva nazionale.

C’è però, ed è ancora un obiettivo primario, la necessità di cambiare il parco-macchine delle imprese italiane: secondo l’ultima rilevazione statistica utile, nel 2005 oltre un quarto delle macchine in attività aveva una età media di venti anni, decisamente troppi per qualsiasi tecnologia produttiva e settore merceologico.

Qui è il punto attraverso il quale è necessario analizzare la “Nuova Sabatini”, quella del Decreto “Fare” (DL 69/2013, art. 2).

La Nuova Sabatini prevede un finanziamento bancario tra i 20mila e i 2 milioni di Euro, anche in forma di leasing (e oggi dal leasing non si possono più detrarre fiscalmente le quote di “affitto” del bene strumentale) per tutti gli impianti strumentali nuovi, oppure ancora un contributo economico, che tratta gli interessi sui finanziamenti già accesi, e si tratta di un contributo a tasso del 2,75% a rate semestrali, per cinque anni di durata, oppure infine una copertura del finanziamento fino all’80% dell’ammontare grazie al “Fondo per le PMI”.

La “Nuova Sabatini” opera con un plafond di 2,5 miliardi di Euro allocati presso la Cassa Depositi e Prestiti, e le società o banche che possono “lavorare” su questo fondo devono essere tutte convenzionate con il Ministero dello Sviluppo Economico.

Il plafond è probabilmente troppo poco, si dovrebbe stimolare, con una normativa concordata con la Banca d’Italia, la autonoma dazione di fondi della Banche, che ormai hanno perso la capacità di investire nelle Imprese e si sono sedute sulla troppo facile poltrona dell’acquisto di titoli pubblici.

Inoltre, le nostre banche, per la loro organizzazione interna, non sono capaci di valutare bene il rischio produttivo, che è cosa diversa da quello strettamente finanziario, e poi, diciamolo chiaramente, la catena di comando delle nostre aziende bancarie si è troppo allungata, occorrerebbe ridare ai direttori di filiale, che conoscono i loro clienti meglio di chiunque altro, un “polmone” di liquidità per sostenere gli imprenditori prima che sia troppo tardi, e magari non si possa rientrare nemmeno nei parametri della “Nuova Sabatini”.

Naturalmente, è la Banca che sovranamente decide di concedere il prestito mentre, secondo noi, la decisione finale dovrebbe essere concordata con la Cassa Depositi e Prestiti e con lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico.

La decisione di sostenere questa o quella impresa è economica ma, sempre più spesso, squisitamente politica. Può essere interesse dello Stato mantenere la produttività media di una PMI operante in un settore-chiave, e qui mi vengono in mente le innumerevoli PMI che operano nel settore tecnologico-militare o della meccanica di precisione, o ancora della microelettronica, o delle nanotecnologie.

Non si può permettere che l’Italia perda, per una banale valutazione contabile da ragiunàtt di un racconto di Carlo Emilio Gadda, una occasione produttiva che riguarda il suo futuro, o la sua presenza strategica in un settore tecnologicamente evoluto.

La Sabatini 2014 ha caratteristiche in gran parte peggiorative. Le imprese devono già essere titolari di un finanziamento bancario di massimo 5 anni, non inferiore a 20mila euro e non superiore, sono i limiti già visti, ai 2 milioni.

Se comunque, come dicono le statistiche, i successi delle “Sabatini” sono rilevanti, occorre però, data la massa di liquidità necessaria per rifinanziare il ciclo delle nostre PMI delle macchine utensili, e quindi la produttività media di tutto il nostro settore manifatturiero, fare ben di più.

Per esempio, si potrebbe pensare ad un Fondo “dedicato” delle maggiori banche d’affari italiane, che dovrebbero curare meglio e di più i loro futuri clienti, organizzato non in un plafond determinato fin dall’inizio, ma in una media di spesa calcolata sulla valutazione del costo del rinnovo medio del parco-macchine delle nostre PMI, che non è possibile calcolare con eccessiva precisione.

La disponibilità al finanziamento “a progetto”, dietro peraltro una ovvia solidità bancaria, dovrebbe essere valutata anche in termini scientifici, tecnologici, di vantaggi comparativi globali e quindi in termini strategici e geoeconomici, che valgono almeno quanto la contabilità tradizionale, che è naturalmente essenziale.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”



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