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Così l’altalena del prezzo del petrolio scombussola gli equilibri geopolitici

La sicurezza energetica non dipende solo da una sicura disponibilità dei combustibili necessari alla vita e all’economia, realizzata con la diversificazione del mix energetico e dei Paesi di approvvigionamento. E’ influenzata fortemente anche dal prezzo. Con buona pace dei “fantasisti” o, più realisticamente di chi approfitta vantaggi dei generosi incentivi concessi all’eolico e al fotovoltaico – giustificati solo dal desiderio di molti politici hanno d’ottenere il sostegno dei “verdi” – i combustibili fossili rimarranno centrali ancora per decenni nell’economia mondiale. Il “peso” dell’energia sui costi dei prodotti varia da settore a settore, dal manifatturiero all’agricoltura. Nel primo varia dal 10 al 20%, senza tener conto dei trasporti. Ha quindi un forte impatto sulla competitività. Il prezzo dei combustibili è fortemente condizionato in taluni Stati dalla tassazione, che in Europa varia dal 60 all’80% del prezzo al consumo. In altri Stati, in particolare nei paesi produttori, ma anche in India, dagli incentivi. L’entità della tassazione ammortizza le variazioni del prezzo del petrolio e del gas sul mercato globale. Esse sono più rilevanti di quanto vengano percepite dai consumatori.

E’ passato quasi inosservato all’opinione pubblica che il prezzo mondiale del petrolio sia diminuito di quasi il 30% negli ultimi quattro mesi. E’ passato mediamente da 115 a 80 dollari al barile. Se l’attuale livello di prezzo si stabilizzasse, le entrate dei produttori – che ammontavano a un trilione di dollari all’anno – diminuirebbero di più di 300 miliardi, dati che i costi fissi – d’estrazione, raffinazione e trasporto – rimangono invariati. I paesi importatori godrebbero invece di un Quantitative Easing di pari importo. Ogni famiglia americana avrebbe un bonus annuale di almeno 600 dollari, senza tener conto dei vantaggi indiretti, dovuti alla diminuzione dei costi dei generi di consumo e dei trasporti. Pesanti sarebbero invece le ripercussioni negative sulle finanze pubbliche dei paesi con forte tassazione sui combustibili. Comunque, tale danno sarebbe limitato dalla maggiore crescita dell’economia. L’Europa, la Cina e l’India trarrebbero grandi vantaggi. Molto negative sarebbero invece le conseguenze sulla Russia e sui paesi sia mediorientali sia africani esportatori. Gli unici a poter assorbire senza particolari difficoltà la riduzione dei prezzi del petrolio sono l’Arabia Saudita e il Kuwait. Solo essi saranno in grado di finanziare i sussidi, gli incentivi e gli aiuti connessi con il loro tentativo di frenare l’impatto della “primavera araba” sulla loro stabilità politica e sociale.

La Russia sarà fra i Paesi più colpiti. Il suo bilancio 2014 assumeva che il prezzo medio del barile di greggio fosse di 117 dollari. Quello del 2015 ne ipotizza 100. Oltre il 50% dell’economia e del bilancio statale di Mosca dipendono dalle esportazioni di idrocarburi: per quattro quinti da quelle dal petrolio e per un quinto da quello del gas. Dovrà ricorrere al Fondo di Riserva e al Fondo Sovrano di Ricchezza, che complessivamente ammontano a 600 miliardi di dollari. Se i prezzi rimarranno quelli attuali, ce la potrà fare fino al 2018. Poi, dovrà accordarsi con l’Occidente per l’attenuazione delle sanzioni, che oggi non le consentano di accedere a prestiti internazionali, che prima o poi dovrà comunque rimborsare. Dovrà ridurre i programmi di potenziamento militare e rinunciare alle promesse fatte da Putin di migliorare il benessere della popolazione. Gli altri produttori che più subiranno il peso della riduzione del prezzo del petrolio sono l’Iran e il Venezuela. La riduzione del prezzo del petrolio, il cui mercato è globale, si rifletteranno, in misura diversa da paese a paese, su quello del gas, fissato da accordi regionali coperti da riservatezza.

Quali sono le cause e quali le conseguenze geopolitiche della vera e propria rivoluzione in corso nei mercati dell’energia? Una prima teoria formulata al riguardo è che le riduzioni si prezzo siano dovute a un complotto, concordato dagli USA e dall’Arabia Saudita ai danni della Russia e dell’Iran. Essa si collega al ricordo del collasso del prezzo del petrolio del 1986, di certo deciso da Washington e Riyad, causa non ultima del crollo dell’URSS. Tale teoria è molto popolare nell’opinione pubblica russa. Il Cremlino ha tutto l’interesse a rappresentare la Russia come una cittadella assediata. Può così appellarsi al tradizionale patriottismo russo e giustificare sia la mancata realizzazione delle promesse di un aumento del tenore di vita, sia qualche nuovo “giro di vite” interno. Dal canto suo, Teheran tace. Sarebbe indotto a farlo dalla presunta promessa di Washington di abolire le sanzioni e, soprattutto, di trasformare l’Iran nel più grande fornitore di gas all’Europa, rompendo il monopolio di Gazprom, utilizzata da Mosca per esercitare pressioni politiche. La prospettiva non è a breve termine. Ci vorranno almeno sette- otto anni per costruire i gasdotti necessari. La tesi del complotto è contestata da parecchi esperti. Essi non ritengano che i prezzi di commodities così importanti come quelle energetiche possano oggi essere manipolati come in passato. Gli attuali mercati sono troppo complessi. La diminuzione del prezzo mondiale del petrolio ridurrà la crescita dell’utilizzo dei petroli non convenzionali, con cui gli USA sono divenuti il primo produttore mondiale. Danneggerebbe troppo i loro produttori negli USA, che costituiscono una potente lobby. Infine, l’Arabia Saudita non controlla più l’OPEC come trent’anni fa. Potrebbe subire danni eccessivi, anche per l’aumento dell’instabilità che ne conseguirebbe nel mondo arabo.

Allora, quali possono essere le cause di una riduzione tanto drastica del prezzo del petrolio? Fino a dove potrà spingersi? Quanto potrà durare? Nel passato, soprattutto dopo la costituzione dell’OPEC, il mercato trovava un equilibrio fra produzione e domanda, agendo sul prezzo. Una diminuzione della domanda veniva compensata da una minore produzione, in modo da evitare un’eccessiva diminuzione del prezzo. Il ciclo si chiudeva e l’equilibrio veniva ristabilito con un aumento della produzione. L’Arabia Saudita, con il suo controllo sull’OPEC, lo gestiva d’intesa con gli USA, ricevendo in cambio la loro protezione. Oggi, alla diminuzione della domanda, dovuta alla crisi economica mondiale, non è corrisposta la riduzione della produzione, ma una dei prezzi. Essa è praticabile dall’Arabia Saudita che mira a salvaguardare la sua quota di mercato mondiale, messa in pericolo dall’aumento della produzione dell’Iraq e, in futuro, dell’Iran. Ma la quantità di petrolio sul mercato mondiale è enormemente aumentata per l’apporto della produzione di petroli non convenzionali degli USA (dal 2008, 3,9 mbg) e delle sabbie petrolifere del Canada (1 mbg). Ha influito anche l’aumento della produzione di shale gas, sempre più impiegato in USA, al posto del petrolio, anche per l’autotrasporto e per l’industria petrochimica.

Nell’ambito dell’OPEC la produzione è aumentata di quasi 2 mbg, mentre la domanda mondiale è rimasta “piatta”. Le importazioni USA sono già diminuite dal 60% al 25% dei consumi. La domanda dei maggiori importatori (Europa, Cina, India e Giappone) è stata inferiore a quanto previsto. Il divario fra offerta e domanda è stato solo in parte contenuto dall’instabilità politica di taluni paesi produttori e dall’aumento dei loro consumi interni. In Arabia Saudita, i consumi sono passati in cinque anni da 1 a 3,5 mbg. E’ diminuita per gli USA la dipendenza dal Medio Oriente. Non è da escludere in esso un nuovo ciclo d’instabilità e un aumento della centralità geopolitica dell’Arabia Saudita, a cui molti governi si rivolgeranno per aiuto. Molto dipenderà dall’esito dei negoziati in corso fra gli USA e l’Iran. In proposito, taluni hanno ipotizzato che Riyad abbia voluto dimostrare la propria capacità di colpire la produzione statunitense di petroli non convenzionali, per evitare un eccessivo avvicinamento fra Washington e Teheran. Anche tale teoria mi sembra poco credibile, sebbene l’aumento dell’offerta saudita di petrolio e la diminuzione del prezzo ridurrà i profitti dei potenti petrolieri americani. Ma, secondo valutazioni del Dipartimento USA dell’Energia, gli investimenti in petroli non convenzionali sarebbero redditizi fino ad un prezzo del petrolio di 75 dollari al barile. Gli USA potrebbero assorbire un’altra riduzione del prezzo del greggio.

La geopolitica mondiale ne sarà influenzata. La competitività dell’industria americana aumenterà. Diventerà difficile per l’Europa fare a meno degli USA. Non ha alternative. La possibilità di rafforzare i rapporti economici con l’Asia in alternativa a quelli euroatlantici, tanto declamata nella recente riunione dell’ASEM di Milano, è inesistente. Lo è per molte ragioni: demografiche, energetiche e strategiche. Il problema per noi europei sta nel fatto che avremo sempre più bisogno degli USA, mentre questi ultimi ne avranno sempre meno degli europei.


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