L’esito del voto di Reggio Calabria non inganni. C’è stata sì la clamorosa affermazione del giovane Giuseppe Falcomatà (peraltro figlio di un ex sindaco dal 1993 al 2001), ma il suo partito, il Pd, risulta in testa alla graduatoria con soltanto il 16,5 per cento e sette seggi, rispetto al 28,7 delle precedenti comunali e al 41 per cento di recente renziana memoria nazionale. Inoltre, si è votato dopo un commissariamento del Comune causa infiltrazione della ‘ndrangheta, che non è scomparsa e avrà, come sempre, preferito i vincenti ai perdenti. Fra questi ultimi, FI (terzo in graduatoria con l’8,4) e Ncd (col 3,2), il partito del ministro dell’interno, non hanno che da piangersi addosso, per le baruffe reggine e, soprattutto, nazionali.
Ricordo evento ed esiti elettorali sperando che, nei partiti degni di questo nome, ci sia ancora qualche esperto elettorale che sappia leggere i risultati oltre l’ovvietà visibile a occhio nudo e sappia chiedersi (non per curiosità personale) se il caso di Reggio, come altri esempi adducibili, non indichi una inversione di tendenza rispetto alla marcia trionfale di cui menano vanto i giovani della Leopolda, a cominciare dal premier Renzi, che ha ieri confermato di voler restare a Palazzo Chigi almeno sino al 2018. Un altro indizio non trascurabile è il recentissimo sondaggio di Nicola Piepoli, per il quale i dissidenti del Pd valgono un buon 10 per cento: una percentuale, comunque da sottrarre dalla massa-voti del Pd; si tratti di quella del 25 maggio 2014 o, ancor peggio, del febbraio 2013.
Nell’ultimo fine settimana gli osservatori politici si sono sbizzarriti nel fare previsioni circa la capacità del governo di resistere ad ogni contrassalto dei propri avversari e tirare diritto, come diceva un tempo quel romagnolo che restò al potere vent’anni. Certo si poteva celiare a piacimento contrapponendo il milione di presenze al comizio della Camusso a Roma rispetto al migliaio di adoranti convocati da Renzi alla Leopolda V. Ma la tre-giorni fiorentina, pur frammista a siparietti gustosi quanto superficiali, è anzitutto servita a mettere a punto una serie di dossier su questioni aperte che non si risolvono riempiendo la piazza di slogan e di urla, bensì con lo studio dei problemi e portando in parlamento proposte innovative (di vecchiume veterocorporativo son piene le fosse). E il problema principale del momento risiede proprio nelle due camere: dove, malgrado l’alto premio di maggioranza usufruito grazie al porcellum, il governo è sotto scacco continuo di una irrefrenabile dissidenza interna.
La domanda da porsi è: può Renzi, enfatizzando il suo 41 per cento alle europee e immaginando di andarvi oltre, reggere ancora una situazione parlamentare nella quale i maggiori ostacoli e le quotidiane insidie gli provengono da sinistra, cioè dal proprio schieramento? Il primo a conoscere l’intrinseca debolezza della massa parlamentare del Pd e associasti, è proprio il presidente del consiglio. Che non è soltanto un piacione garrulo, ma anche un freddo calcolatore dei pro e dei contro che si prospettano nell’impresa di cambiare verso all’Italia e all’Europa. Siccome ad una tale missione Renzi ci crede, non limitandosi a farla ripetere dai suoi coristi come un disco rotto, non può, a ragionarci sopra per benino, pensare di reggere una situazione parlamentare palesemente instabile, mentre ha, piuttosto, l’interesse ad una verifica elettorale, più prossima che remota, prima di rischiare un voto di sfiducia dal quale non riesca più a rialzarsi.
Aggiungiamo a questa condizione difficile del premier la condizione disagevole, problematica e di molto dubbia rimonta degli alleati ministeriali (i quali possono gonfiarsi d’orgoglio, ma non sperare in un solo voto in più), e ci apparirà più chiaro che, più il tempo trascorre senza cambiamenti vistosi e condivisi, più si allontanano le probabilità di liberarsi di un fronte di oppositori e di frenatori che rende quasi impossibile la produttività parlamentare.
In estrema sintesi. Qui non si tratta di auspicare nuove elezioni a breve rispetto ad una maggioranza reale di parlamentari nominati che difendono a oltranza la durata della XVII legislatura confidando in un capo dello Stato, da sempre restio a scioglimenti anticipati delle camere. La questione è che questo parlamento non è in grado di fare alcuna riforma strutturale: né economica, né costituzionale, né di riordino democratico della giustizia, né di disaggregazione delle strumentazioni sociali. Sicché si spiega come e perché il patto del Nazareno torni a proporsi come un’intesa fra diversi, anche se Berlusconi non ha alcun interesse pratico a favorire uno scioglimento a breve di camere in ogni caso ingovernabili. Le dichiarazioni di Roberto D’Alimonte al Foglio confermano peraltro che, al di là della propaganda, la strategia democratica possibile resta la conferma e il recupero del patto del Nazareno.