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Sinodo, perché Papa Francesco ha trionfato

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’analisi di Gianfranco Morra uscita oggi sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Un sinodo che lascerà il segno. Papa Francesco l’ha preparato con intelligenza e lo ha diretto con autorità. Sapeva che fra vescovi e cardinali vi erano divergenze, ma sapeva anche che, di fronte al suo richiamo all’unità della Chiesa, non ci potevano essere fratture. Anche perché l’era delle rivolte, quella di Lutero e Calvino, è lontana e oggi viviamo in una cultura del pluralismo e della mediazione. Il nuovo progetto pastorale di Bergoglio prende il via da una acuta e sensibile fenomenologia del nostro momento storico. Che ha largamente emarginati i concetti fondamentali della cultura europea, sintesi di classicità e cristianesimo: l’essere sostituito dal divenire, la verità dal probabilismo, la natura dalla storia, l’autorità dal giovanilismo, la morale dalla situazione, la ragione dall’inconscio, il monoteismo dal politeismo.

L’esito, deplorato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, non è meno chiaro a papa Francesco: relativismo e nichilismo. La religione non è più uno status nazionale o familiare, qualcosa che mi attribuisce identità e solidarietà, è piuttosto una “eresia” (che in greco significa “libera scelta”), una opzione individuale e in ogni momento modificabile, estranea alle istituzioni sociali, confinata nella soggettività e nel tempo libero del gioco e dello spettacolo. Non sempre e non per tutti, ma di certo a forte prevalenza. Le conversioni sono quasi tutte in uscita. Ecco perché in Occidente nessuno più la combatte, anzi il laicismo la inserisce nelle sue liturgie irreligiose. L’anticlericalesimo apparteneva al passato, a quella modernità “forte” che, essendo una religione secolare, combatteva la “falsa” religione cristiana. Nella nostra postmodernità “liquida e debole” non possiamo più avere Voltaire, che chiedeva di “schiacciare l’infame”, ma solo Scalfari. Che infatti plaude, protegge e confessa il Papa.

Bergoglio non solo lo ha capito perfettamente, ma si è anche reso conto che fermare questa mondanizzazione del popolo di Dio per ora è difficile. Dopo il Vaticano II, nonostante alcune proposte positive (riscoperta della Bibbia, apertura al laicato e alle donne, povertà evangelica, rifiuto del curialismo e del clericalesimo), la Chiesa ha perso terreno: crisi degli ordini religiosi, riduzione e banalizzazione della liturgia e dei sacramenti, estromissione da tutte le istituzioni civili, indifferentismo morale (per non parlare dei reati sessuali, che non sono certo diminuiti nella Chiesa postconciliare).

D’altra parte anche la moderata “controriforma” dei papi Wojtyla e Ratzinger non è riuscita a fermare questa emorragia, la Chiesa è ancora sul piano inclinato. Ha davanti a sé una antitesi: se si apre al mondo, ne diviene una variabile dipendente; se si chiude, perde consenso (parte non piccola del mondo cattolico ammette aborto, divorzio, omosessualità e convivenze pseudomatrimoniali). La leva più usata per aggiornare e anche accordare la Chiesa con le tendenze oggi prevalenti è un nuovo rapporto tra teoria e prassi.

Assumendo la filosofia greca come cornice della cultura cristiana, il medioevo aveva proclamato il primato del pensare sull’agire: “Niente si può volere, se prima non è conosciuto razionalmente” (nihil volitum, nisi praecognitum). La fede ha il primato, ma la ragione ne costituisce il “preambolo” e ne sostiene i dogmi. Anche la morale si fonda sulla ragione, che comprende e rispetta l’ordine della creazione (diritto naturale). La condotta di ciascuno è una conseguenza della sua natura, di ciò che egli è (operari sequitur esse). Per “aggiornarsi” la Chiesa doveva capovolgere questo rapporto e “deellenizzarsi”: agire bene (ortoprassia) è più importante che pensare bene (ortodossia). Doveva far propria la tendenza più forte della modernità, che, da Bacone (“sapere è potere”) a Marx (“primato della prassi”), ha privilegiato il “fare”.

Le proposte innovative del papa anche se non hanno ottenuto i due terzi di voti richiesti, hanno la maggioranza. Il documento finale del sinodo, redatto da un genio della mediazione come il card. Ravasi, ha riflesso la divergenza tra modernismo e tradizione emersa dalle discussioni: il matrimonio è indissolubile, le seconde nozze mai, solo qualche eccezione purché si faccia penitenza; il matrimonio gay non è cattolico, ma possono esserlo i gay, che hanno tanto da dare ai fratelli; i conviventi di fatto dovrebbero sposarsi, ma, se si amano, non sono “pubblici concubini”, anzi “presentano elementi di santificazione”; la comunione ai divorziati risposati non è certo un premio, ma un aiuto a famiglie in difficoltà (in commissione 104 sì, 74 no).

I “conservatori” sono tranquilli, nulla del “depositum fidei” è stato toccato, meglio parlarne poco, tanto i dogmi oggi non interessano più di tanto. Gli “innovatori” gioiscono, perché la Chiesa ha cambiato rotta: dialogo e misericordia, ascolto e solidarietà, il cristianesimo non è verità fossilizzata, ma storia che cammina. La relazione finale, votata quasi all’unanimità (158 a 174), anche nel linguaggio è un cocktail di intransigenza mitigata, apertura socchiusa, tradizione innovativa, modernizzazione cauta, dogmi indiscussi e morale buonista.

Il sinodo propone soltanto, ce ne sarà un altro l’anno prossimo, consultivo come quello appena finito. Dopo la decisione spetterà a Bergoglio, che non ha nascosto da che parte è schierato. Tutti l’accetteranno: nessuno può mettere in discussione il primato del papa, se io vedo una cosa nera e lui dice che è bianca, debbo credergli (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 365)
La strategia pastorale scelta dai vescovi non è dissimile da quella descritta dal Manzoni: assediato da una folla affamata e inferocita, timoroso che la carrozza non riesca ad andare avanti, il cancelliere Antonio Ferrer comanda al cocchiere Pietro: “Adelante, Pedro, con juicio”. Che poi sia un “adelantar” o un “recular”, per ora non sappiamo. Molti vescovi sperano che questa nuova prassi possa attirare tanti alla fede. Ed evitare una possibilità, che Gesù non ha escluso: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?” (Lc 18, 8).


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