Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Ci stiamo avvicinando a grandi passi verso l’evento del 18 ottobre a Milano. L’orizzonte di «Sveglia Centrodestra!» sembrava lontano, fumoso; al contrario, in pochi mesi, nonostante lo scetticismo generale — e un circoscritto corollario di sottile denigrazione che, inevitabilmente, accompagna ogni impresa ambiziosa —, determinazione e volontà hanno permesso di lanciare la sfida e iniziare, finalmente, a dar voce a quell’elettorato di centrodestra ridotto al silenzio da litigi e imbarazzi nazionali.
Ho seguito con interesse il dibattito progressivamente sviluppatosi sulle pagine di Formiche.net, e ritengo che sia già emersa — come prevedibile — un’evidente preoccupazione; o, meglio, ciò che alcuni ritengono una sorta di peccato originale che vizierebbe, sin dal principio, la vocazione maggioritaria di un grande centrodestra, impedendone di fatto la realizzazione. Mi riferisco all’annosa questione, più volta ripropostasi in questi anni nel panorama politico italiano, della pacifica e fruttuosa convivenza di opinioni, punti di vista e «ricette» diversi all’interno di una medesima piattaforma alternativa alla sinistra e al Movimento 5 Stelle. A mio avviso, quest’ottica va ribaltata, essendo più il frutto di una consolidata abitudine all’inerzia della litigiosità e alla teatralità della rissa più che il frutto d’inconciliabili vedute programmatiche.
La storia politica italiana — e una legge elettorale che per lunghi tratti ha favorito la frammentazione del panorama partitico — è caratterizzata dalla peculiare tradizione di fare e disfare partiti dalla sera alla mattina, a seconda dell’umore dei capi corrente o del grado d’insoddisfazione di guardie vecchie e nuove. Ciò si è spesso tradotto, da un lato, in tendenze disgregative all’interno delle formazioni più ampie, e dall’altro lato in frequenti tentazioni atomistiche per assecondare esasperati personalismi tradottisi il più delle volte in imbarazzanti comparsate sulle schede elettorali.
«Sveglia Centrodestra!» mira a spezzare questo circolo vizioso d’immaturità: non mira né a distruggere né a esibire stantio giovanilismo, bensì a costruire, partendo anzitutto dal confronto delle idee, e non da presunti nuovi leader preconfezionati. Si vuole, dunque, capovolgere quello schema dominante che antepone la conta delle tessere, l’orecchiabilità degli slogan, la risonanza dei nomi all’armonia e alla coesione delle idee. Riferite alla politica, armonia e coesione sono spesso erroneamente confuse con pochezza del dibattito, passività intellettuale o, peggio, pensiero unico; invero, sono le irrinunciabili fondamenta da cui partire per edificare un nuovo centrodestra. Il 18 ottobre, non saranno distribuite tessere, né saranno scritti improbabili inni di partito; e lasciate a casa il cappotto, perché non vi saranno correnti o spifferi.
C’è bisogno, prima di tutto, di nuove idee e di una nuova vocazione maggioritaria.
Per questo ritengo premature — seppur legittime — le preoccupazioni che taluni hanno manifestato, poiché esse nascono principalmente dall’abitudine nell’assistere ai balletti di una classe dirigente che pensa in piccolo, al proprio orticello e alla propria percentuale, a sventolare a giorni alterni spettri di scissione, o tuttalpiù a costruire contenitori di sigle fingendo che, nel frattempo, il mondo non sia cambiato. Quella del 18 ottobre sarà un’occasione per iniziare a proporre un’alternativa non solo programmatica, ma anche al modo d’interpretare la dialettica e il confronto.
Sarà inevitabile avere differenti opinioni, ad esempio, nei confronti dell’Europa o dei cosiddetti temi etici. Tuttavia, sono convinto che, se fin dal principio si lavora con spirito costruttivo, con umiltà, per trovare delle sintesi e non dei motivi di scontro, la strada possa essere sì lunga, ma in discesa. Una convinzione, la mia, dettata non dall’ingenuità o da un superficiale ottimismo, bensì da un fattore esogeno, cioè la situazione emergenziale in cui versa il Paese, che mi auguro possa spingere molte persone di buona volontà a mettere da parte qualche elucubrazione filosofica di troppo e a stringersi attorno alla concretezza di un programma comune.
Proprio in quest’ottica di pacifica convivenza, suggerisco di riporre nel cassetto le etichette. Per troppo tempo, in spazi reali e virtuali, si è assistito a ridicole zuffe, isterismi e guerre tra bande che rivendicavano il possesso del sostantivo «liberale» e, in taluni casi, «libertario». Questa gara a esibire la patente di liberalismo, oltre a essere uno spettacolo di dubbio gusto, non ha fatto altro che dividere ancor di più il già piccolo universo liberale e creare inutili faide personali, perlopiù avulse dalle questioni politiche. Serve un piccolo passo indietro da parte di tutti per farne due, grandi, in avanti. Venite a portare il vostro, importante contributo d’idee: andiamo oltre le mere definizioni nominali e gli steccati ideologici, e badiamo alla sostanza, che è la vera discriminante di ogni pensiero. L’alternativa è inchinarsi al Patto del Nazareno e ridursi alla mera testimonianza fine a sé stessa.