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Vi spiego perché le Regioni hanno torto marcio a sbraitare contro il taglietto di Renzi

Le Regioni hanno torto marcio. Sergio Chiamparino, un riformista quando era nel Pci, è diventato un Masaniello alla testa di un improbabile esercito di Franceschiello: “Basta tagli, si incrina il rapporto di lealtà istituzionali, si mette in crisi la sanità e la salute degli italiani”. Ma di che stiamo parlando? Di 4 miliardi su 109. E che cosa verrebbe tagliato? Lo spiega bene un pezzo sulla Stampa, peccato sia pubblicato a pag. 38 nella cronaca di Torino. Vediamo.

1) Lo scorso agosto governo e regioni sottoscrivono un patto per la salute che prevede un aumento (sic!) nel triennio 2014-2016 davvero consistente. Ecco le cifre: da 109 miliardi 928 milioni di quest’anno a 112 miliardi e 62 milioni nel 2015, fino a 115 miliardi e 44 milioni nel 2016. Soldi in più, quindi, soldi reali perché l’inflazione è prevista attorno a zero se non sotto. Se è così, la metà del “taglio previsto dal governo” per il prossimo anno è il rinvio di un aumento concesso in modo imprudente, un clamoroso errore, visto che già ad agosto era chiaro che la ripresa non sarebbe arrivata. E gli altri due miliardi? L’articolo di Alessandro Mondo spiega che servono a coprire l’aumento dei costi e dei contratti dei dipendenti. Bene. Ma innanzitutto i prezzi al consumo sono in discesa e quelli alla produzione sono negativi, dunque si tratta di capire quali costi salgono per ragioni oggettive e non speculative; in secondo luogo, perché gli impiegati regionali ottengono aumenti mentre quelli statali continuano ad avere le buste paga bloccate? Forse la crisi economica non riguarda tutti, anche le regioni?

2) Non solo. Il fronte unico regionale è un imbroglio. Come si fa a mettere nella stessa barca regioni con il bilancio in attivo o in pareggio con quelle in continua perdita? Certo, tutte vogliono aumentare la loro fetta. Ma, a parte il fatto che la torta nazionale si riduce, perché la Lombardia dovrebbe marciare insieme alla Calabria? Lo spaccato vergognoso della situazione è venuto alla luce quando si è trattato di rimborsare i debiti della Pubblica amministrazione. Ebbene la maggior parte dei ritardi, una volta che il Tesoro ha sbloccato i fondi necessari, deriva dal fatto che intere regioni e centinaia di comuni non avevano mai certificato le spese, spesso realizzate a trattativa privata, con concessioni agli amici degli amici. Per credere basta chiedere alla Cassa depositi e prestiti che doveva garantire la liquidazione. Poche regioni hanno un vero bilancio consolidato, e molte non hanno nemmeno un bilancio degno di questo nome. Altro che tagli, andrebbero sciolte.

3) E qui veniamo alla questione di fondo: il grande equivoco della sanità attraverso il quale si configura una sorta di federalismo meticcio. L’Italia ha scelto un servizio nazionale modello britannico, poi ne ha regionalizzato la gestione. La sanità viene alimentata sostanzialmente dall’Irap, dall’Irpef, dall’Iva e dalle accise sui carburanti. I fondi vengono redistribuiti con un mercato delle vacche basato su criteri poco standard e molto clientelari. Se le regioni vogliono disporre totalmente delle proprie risorse allora debbono essere responsabili fino in fondo delle entrate e delle uscite, e non farsi ripianare i bilanci a pie’ di lista. Se non sono in grado di pareggiare i conti, falliscano, come avviene negli Stati Uniti. Anche in quel regime pienamente federale ci sono risorse gestite a livello nazionale, ma vengono sottratte ai poteri locali. Quanto agli Stati, vanno in default senza che la Federal Reserve o il Tesoro corrano in loro aiuto.

4) E’ proprio questo il problema più importante del sistema pubblico italiano, quello che impedisce di fare un bilancio dello Stato come si deve e di avere una politica fiscale efficiente, quello che rende la spesa pubblica incontrollabile e fa fallire qualsiasi spending review. Forse Matteo Renzi ha sbagliato cominciando la riforma istituzionale dal Senato. Perché il bicameralismo imperfetto riduce l’efficienza dell’esecutivo, il federalismo imperfetto impedisce di gestire il paese.

Stefano Cingolani


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