L’indebolimento di Barack Obama determinerà una qualche nuova fragilità di Matteo Renzi? Di un Renzi dotato di un’unica vera solida base politica cioè l’interesse di ampi ambienti atlantici (al di là dell’amministrazione in carica, la grande finanza, Israele, la City) a non regalare a Berlino un Paese strategico come l’Italia?
Debole uno, debole l’altro? Si tornerà ai governi flosci american-tedeschi (con questi ultimi favoriti dal sistema comunitario) tipo quelli di Mario Monti ed Enrico Lettino? Si esaurirà così la pur confusa carica riformista in corso?
In realtà l’andamento delle cose non è così lineare: Angelo Panebianco e anche alcuni editoriali del New York Times spiegano come mentre la nuova debolezza creerà diversi problemi in politica interna, potrebbe invece dare a Obama margini di iniziativa in una politica estera meno disturbata dalle fantasie multipolariste post 2008 e più in grado di recuperare il realismo che contraddistingue uno dei filoni tradizionali della sua politica estera. Potremmo quindi avere sorprese sia nella trattativa con l’Iran, con la Russia (le due questioni paiono intrecciarsi) sia nella gestione dei trattati transatlantico e transpacifico.
A parte le considerazioni sulla Casa Bianca, l’amministrazione imperiale americana (al di là di chi ne è responsabile) sulle questioni europee dimostra comunque una certa reattività: il giorno dopo che Jean-Claude Juncker attacca Renzi per intimidire Mario Draghi, il presidente della Commissione europea si ritrova sui principali quotidiani del mondo sotto accusa per avere agevolato un sistema di elusione fiscale strutturale nel suo Lussemburgo. E anche lunedì 10 novembre, mentre Juncker bombarda Renzi, il Financial Times bombarda Juncker. Sempre in questa ottica bisognerebbe analizzare poi con cura il comportamento di Grillo & co. che in diverse occasioni (l’ultima su Csm e Alta corte: come messaggio anche sul prossimo Quirinale) hanno fatto da soccorso (a stelle e strisce?) al governo Renzi.
Certo alcuni protagonisti della politica italiana potrebbero essere influenzati dalla lettura semplificata “Obama debole-Renzi debole” e fare la tradizionale mossa politically correct di rifugiarsi nell’europeismo morente che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni italiani, alla ricerca della coperta calda che ti libera da ansie e responsabilità.
Parte decisiva, peraltro, della nostra classe dirigente (politica, intellettuale, imprenditoriale) si è ispirata alla teoria del cosiddetto “vincolo esterno” (le riforme fatte per costrizione dall’esterno) nata da grandi protagonisti come Guido Carli e Nino Andreatta che sapevano come compensarla con la difesa degli interessi nazionali, e finita nelle sciatte pulsioni ad autocolonizzarci di cui è stato esemplare maestro Carlo Azeglio Ciampi.
Il tutto nasce da un’idea della nazione italiana fondata sul disprezzo del proprio popolo (familista, corrotto, lazzarone, troppo “cattolico” per essere efficiente come in una civiltà protestante). Un’idea propria di élite ed establishment che cercano un’investitura di potere dall’alto e non dal basso, e che si intreccia bene con settori di borghesia (e intellettualità) compradore, cioè pronti a vendere interessi nazionali per i propri profitti (i perfetti eredi di “Franza o Spagna purché se magna”).
Questo ampio insediamento culturale, politico e sociale è pronto a usare qualsiasi carta per mantenere gli assetti di poteri che sono usciti nel 1992 dal fallimento di parti fondamentali degli “ordinamenti” della nostra Costituzione.
Gli ultimi anni sono esemplari nel mostrare l’affermarsi di questo punto di vista: il via libera all’Alta corte nel liquidare il compromesso “governante “ realizzato con il lodo Alfano, l’indifferenza con cui si è assistito alle forzature di Ilda Boccassini nel massacrare Silvio Berlusconi, la copertura del ruolo inaccettabile di Gianfranco Fini come presidente della Camera alternativo al governo, l’incubazione del governo Monti e l’irresponsabilità di far durare un governo – privo di base politica e incapace – per 16 mesi (coltivando così la bolla Grillo), l’indifferenza con cui si è lasciato espellere dal Senato il leader del centrodestra (siamo in una situazione in cui i leader delle maggiori forze politiche sono extraparlamentari: Berlusconi, Renzi, Matteo Salvini e Beppe Grillo), l’irresponsabilità di far continuare un governo nato di unità nazionale poi proseguito come basato su una scissione, l’incredibile sentenza dell’Alta corte sul sistema elettorale, la leggerezza con cui si è affidato un mandato a Renzi senza prevedere un rapido passaggio elettorale che lo legittimasse.
Questa è la situazione in cui ci troviamo e ora corriamo anche il rischio che un Parlamento delegittimato dall’Alta corte, con una Forza Italia allo sbando, con parlamentari Pd che appoggino Renzi ma sono stati scelti da Pierluigi Bersani, con Ncd che ha quasi più parlamentari di voti, debba eleggere il perno del sistema cioè il nuovo presidente della Repubblica.
C’è un’altra via? Molto dipenderà dalla confrontation tra americani e tedeschi, se questa proseguirà pur tra mille scossoni gli spazi per recuperare una piena sovranità popolare e una sovranità nazionale – pur rispettosa di trattati e alleanze – adeguata, resteranno aperti. Qualche occasione in questo senso si aprirebbe anche con un trattato transatlantico che offrirebbe scelte politiche più libere a tutti i suoi protagonisti. Se invece Berlino e Washington spaventati da equilibri internazionali così difficili, decidessero di rieditare i polverosi compromessi che ci hanno regalato la Libia, l’Ucraina, e in casa nostra i Monti e i Lettini, si aprirebbe uno scenario diviso tra palude e terremoti.
Terremoti nel senso che la stupida idea di costruire un fattore P (populismo) che sostituisca il classico fattore K e garantisca fatiscenti democrazie senza alternanze, durerà poco in un’Europa che in questo contesto sarebbe sempre più percorsa dai Farage, dalle Le Pen e dalle Alternative für Deutschland.