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Ecco come e perché Napolitano ha gelato Renzi

La notizia sostanzialmente nascosta dai resoconti dell’incontro di mercoledì al Quirinale fra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio Matteo Renzi e la ministra delle riforme Maria Elena Boschi è il rifiuto cortesemente ma fermamente opposto dal capo dello Stato alla richiesta di allungare i tempi, per quanto non ancora ben definiti, della sua rinuncia al Quirinale.

Secondo indiscrezioni di buona fonte, Napolitano avrebbe reagito con un cenno negativo della mano, improntato più a stizza politica che a stanchezza fisica, al desiderio di Renzi di vedergli “almeno” promulgare la nuova legge elettorale, di cui lo stesso Renzi continua a ritenere possibile l’approvazione definitiva in Parlamento nei primi mesi, se non addirittura nelle prime settimane del nuovo anno. Un ottimismo, questo del presidente del Consiglio, che il capo dello Stato evidentemente non condivide. E sarebbe francamente impossibile dargli torto.

In realtà, le crescenti resistenze parlamentari, non solo di e in Forza Italia, alla conclusione del tormentato cammino del cosiddetto Italicum si devono non solo al contenuto della legge, ma anche e forse soprattutto alle incertezze politiche createsi con la scadenza ormai anticipata del secondo mandato presidenziale di Napolitano.

Il capo dello Stato ha maturato la convinzione che i nodi della riforma elettorale potranno essere sciolti dentro e fra le forze politiche ad essa veramente interessate solo dopo, o almeno nell’ambito di un accordo sull’elezione del suo successore. E sulle reali prospettive che avrà la legislatura di sopravvivere anche al cambio di guardia al Quirinale.

Napolitano ha finito insomma per trovarsi in qualche modo nella stessa situazione di Francesco Cossiga dopo le elezioni del 1992, quando l’allora presidente della Repubblica con le sue dimissioni volle anticipare sia pure di qualche settimana la conclusione del proprio mandato per mettere concretamente il problema della sua successione nel paniere delle trattative necessarie fra i partiti per avviare con la formazione di un nuovo governo la legislatura appena uscita dalle urne.

Cossiga assunse quella sua decisione, prendendo di sorpresa tutti, anche a costo di esporsi a malevoli sospetti. Uno dei quali, non certo immaginabile nel caso attuale di Napolitano, era che il presidente uscente mirasse ad una sua rielezione nel quadro di un fallimento prevedibile delle varie candidature al Quirinale allora sul tappeto, che erano soprattutto quelle del segretario in carica della Dc Arnaldo Forlani e del presidente del Consiglio del tempo, Giulio Andreotti. In effetti, il Parlamento si rivelò incapace di trovare una soluzione. A sbloccare le cose furono la strage mafiosa di Capaci e l’emozione anche politica che ne derivò. Messe alle strette dall’emergenza, le Camere si trovarono praticamente obbligate a scegliere in poche ore il successore di Cossiga fra i loro due presidenti: Giovanni Spadolini al Senato e Oscar Luigi Scalfaro a Montecitorio.

Fu preferito il democristiano Scalfaro per la preferenza espressa a suo favore dall’allora Pds-ex Pci, interessato alla successiva elezione di Napolitano alla presidenza della Camera, ma anche per la convenienza dei socialisti a mandare al Quirinale un altro esponente della Dc, dopo Cossiga, per rendere più facile poi il programmato ritorno di Craxi a Palazzo Chigi. Dove però sarebbe arrivato, per le complicazioni di Tangentopoli, su designazione dello stesso Craxi, un altro socialista: Giuliano Amato.

L’obbiettivo di adesso, di fronte alla partita del Quirinale che Napolitano ha deciso di riaprire, non è chiaramente la formazione di un nuovo governo, ma più semplicemente la effettiva, realistica continuazione o ripresa del cammino delle riforme: da quella elettorale a quella istituzionale del Senato e delle competenze regionali. Riforme che costituiscono l’unico antidoto all’impaludamento della legislatura e a una sua fine anticipata. Che difficilmente verrebbe accettata o certificata da un nuovo presidente della Repubblica, per quanto fosse tentato di proporgli un passaggio del genere un insofferente Renzi.

Un capo dello Stato che dovesse sciogliere le Camere che lo hanno appena eletto per rispondere agli interessi del presidente del Consiglio in carica si delegittimerebbe da solo, anche se non manca un precedente del genere. Fu quello di Giovanni Leone, eletto presidente della Repubblica alla fine del 1971 e decisosi dopo pochi mesi a sciogliere il Parlamento per l’interesse convergente del suo partito, la Dc, e del Pci di rinviare al 1974, con l’espediente delle elezioni anticipate, lo scomodo referendum sul divorzio, programmato e infine indetto nella primavera del 1972.

Ma erano altri tempi. C’erano altri problemi. E comunque la cosa non portò bene – diciamo così – al capo dello Stato, costretto a gestire durante il suo mandato tragedie come quella del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro. E infine obbligato dal suo stesso partito a dimettersi prima della conclusione ordinaria del proprio mandato, sia pure di pochi mesi, sull’onda di una infame campagna denigratoria.


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