Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Solo il 37,6% degli aventi diritto al voto è andato a votare, appunto, nell’Emilia di Dozza, dei Prodi, della tradizione liberal-conservatrice, ma con quale grande visione, di Giovanni Malagodi da Cento, provincia di Ferrara.
In Emilia, dunque, i non votanti volontari sono stati ben -30,3% rispetto alle regionali del 2010 e addirittura -32,33% rispetto alle Europee del 2014. Il PD esulta, ed ha certamente vinto, ma ha perso 769.000 voti tra Emilia e Calabria.
In Calabria, un panorama simile: sono state riconteggiate due sezioni, ma il PD ha vinto con oltre il 60% dei voti espressi, e lì ha votato il 43,8% degli aventi diritto, contro il 59% del 2010 e comunque in linea con le recenti europee, dove votarono in Calabria il 45,8% degli aventi diritto.
Il Movimento 5 Stelle tra Calabria e Emilia-Romagna, dove aveva raccolto la disaffezione della “sinistra giovanile” e un sindaco a Parma, tuttora in carica, ha perso oltre 400.000 elettori il che, per un movimento come quello di Grillo e Casaleggio, che se non avanza non riesce a far politica, dato il suo rifiuto delle alleanze, è un segno di gravissima crisi.
Il partito “nuovo” della Lega, organizzato da Matteo Salvini, sfiora il 20% delle preferenze con una nuova postura politica della vecchia Lega della improbabile “Padania”: oggi il partito fondato da Umberto Bossi è il partito della rivolta di destra contro l’Euro (è legato al Front National di Marine Le Pen, è noto) e si muove con Fratelli d’Italia e, talvolta, anche con quelli di Casa Pound.
La destra si ricompatta contro l’Euro, catalizza la rivolta contro quello che Pasolini chiamava il “Palazzo”; e il Partito Democratico organizza la sua egemonia sul sistema ufficiale della rappresentanza politica, dopo che il collante di tutte le destre, il berlusconismo, si è volatilizzato nei residui del partito padronale e di autotutela del leader che fu all’inizio.
Cosa succede, però, sotto le fredde recite di cifre e percentuali?
Una prima osservazione: la massa dei votanti non ha più fiducia in nessuno, e la esprime con percentuali sempre maggiori di disaffezione elettorale.
Non è vero che è fisiologica una bassa affluenza, non siamo in America, siamo nell’Italia del più fiero scontro tra comunisti e democratici nel dopoguerra, si pensi al “Triangolo della Morte”, in Emilia, che è il primo caso di welfare di massa organizzato dal PCI, quando ancora i comunisti “mangiavano i bambini”.
Finito il welfare, e da tempo, non arrivano più i voti. La crisi economica strutturale italiana non è stata letta dalle forze politiche, che hanno tirato a campare con piccoli aggiustamenti, promesse, nuovi leaders più o meno plastificati, rimandi a questioni formali del tutto irrilevanti per il nostro tema di fondo: la riforma del Senato, il “Patto” con Forza Italia, qualche provvedimento-tampone per le aree in crisi.
I partiti non hanno soldi da distribuire, e non ne avrebbero nemmeno se si ritornasse ad una qualche “lira”.
Non hanno nemmeno il potere di distribuire quelli che ci sono, perché qui arriva il vero Decisore della cosiddetta “seconda Repubblica”, la burocrazia e i suoi legami con i mercati privati e le necessità finanziarie delle reti pubbliche.
Il sistema politico si è creato, dopo l’operazione Tangentopoli ( e Francesco Cossiga ne sapeva qualcosa) è un sistema che eredita la logica delle leadership carismatiche degli USA ma, come dicono gli esperti di “spin” elettorale profumatamente pagati dai nostri politici attuali, “se il carisma non c’è non ve lo possiamo dare noi”.
Quindi, leader irresoluti, privi anche del minimo know how della politica che, ai miei tempi, aveva anche l’ultimo dei sottosegretari DC o dei “laici” o, per altri versi, l’ultimo dei deputati comunisti.
Costretti quindi a spararle sempre più grosse anche se, come accade con Dulcamara nell’Elisir d’Amore di Donizetti, si tratta sempre di una “bottiglia di vino bordò”
Ed in effetti, di Dulcamara ne abbiamo visti tanti, nella crisi genetica dell’Italia che continuiamo a chiamare “Seconda Repubblica”.
Indecisione politica, incapacità nel farsi valere nel quadrante finanziario internazionale, che vede ancora l’Italia come terra di acquisizioni e fusioni, e allora aspetta che la crisi si acuisca per comprare a meno, incapacità infine di far immaginare agli elettori non questo o quel beneficio (i famosi ottanta euro), ma un progetto di società e di economia che sia credibile e che faccia da modello per i comportamenti degli elettori, anche di quelli che non ti votano.
Il professionismo politico, che anni fa voleva dire Francesco Cossiga, Bettino Craxi, per non parlare dei leader storici del PCI, Ugo la Malfa o il già citato Malagodi, oggi è piccolissimo cabotaggio di personaggi che sembrano arrivati da poco da un Erasmus trascorso a far baldoria.
Finiti, per decisione in gran parte internazionale, i tempi d’oro in cui l’Italia era la prima manifattura europea e tra le prime nel mondo, oggi gli attuali politici sono il frutto dell’americanizzazione forzata di una tradizione, cattolica o comunista, che aveva, però la capacità di generare miti che catturavano per molto tempo le masse.
Ecco: io non sono certo un laudator temporis acti, ma l’Italia è stata declassata, dopo l’operazione Tangentopoli, non a “media potenza” ma a “piccola area strategica” con scarsa autonomia geoeconomica, ma qui parliamo di cose che ai nostri politici fanno fondere le meningi.
Cosa fare, per recuperare il tanto tempo perduto?
Non è certo facile, ma, in prima battuta, occorrerà ricostruire una parvenza di partito politico tradizionale in Italia, che raccolga la gente, la elevi ad uno stile politico e di discussione meno tribale dell’attuale, e la rieduchi, come accadeva nelle sezioni repubblicane della Romagna, ancora spesso luogo di “vendite carbonare” che solo Spadolini riuscì a bloccare, o nelle sezioni della DC di Arezzo, dove tutti potevano parlare con “Amintore” e lui selezionava, e che grande esperto d’uomini era Fanfani, o tra i socialisti calabresi o siciliani.
I Comunisti avevano un’altra ratio organizzativa, e qui non ci interessa parlarne.
Quindi, o contabili o spacconi: o piccoli politicanti che fanno un favore a quella categoria per lucrare voti che gli facciano “passare à nuttata”, per dirla con Eduardo De Filippo, o cacciaballe che rivoltano il mondo intero come un calzino in meno di tre minuti secondi.
Una situazione bipolare che non può non disamorare dalla politica e dai politicanti gli elettori, che si vedono ricoperti di promesse e poi, magari, come è accaduto ai terremotati emiliani, molti ancora nelle classiche case di fortuna, si vedono recapitare le cartelle delle tasse per gli immobili distrutti dal sisma.
Separazione della politica dall’Alta Amministrazione, primo errore, potere delle varie caste e gruppi di potere (si, anche la magistratura) che sono di fatto, anche con la gestione attentissima del Presidente Giorgio Napolitano, del tutto autonome e intangibili, secondo errore, terzo errore è stato il credere alla modernità di plastica del policy making fatto di cani da accarezzare, gusti culinari, gossip, oppure il ricorso, come se fosse un succedaneo, alle improprie “nozze gay” per fare il presunto pieno di presunta simpatia, se non di voti.
La politica è stata inventata, da Platone ai nostri giorni, per risolvere cose estremamente serie, non è una politica-spettacolo.
E’ invece una “società dello spettacolo” quella immaginata dal geniale Guy Dèbord, che ipotizzava la fine del valore della merce di tipo marxistico (e ricardiano) e l’inizio del valore simbolico-pubblicitario del bene, che avrebbe distrutto il valore-lavoro.
Bene, il valore-comunicazione della nostra classe politica, malgrado molti credano il contrario, è decisamente basso e, quindi, auspichiamo una totale trasformazione del ceto dirigente (non solo politico) per evitare che, come potrebbe accadere, la crisi italiana si avvitasse rapidamente e in modo tragico.
Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”